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pre' Marc'Antonio REATTI 
rettore curato di Camalò

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Le vicende di don Marc’Antonio Reatti sono emerse quasi interamente dalla consultazione dell’originale documentazione epistolare conservata nell’Archivio Storico Diocesano di Treviso, riportata nell’opera “Camalò una comunità e la sua storia” del Prof. Antonio Bozzetto di Povegliano TV, 2011.

 
Chi era 
Don Marc’Antonio REATTI era nato nell’anno 1697. Era figlio del capitano Mattio Reatti, comandante della nave San Vittorio, che aveva combattuto valorosamente nella guerra contro i Turchi, guadagnandosi il titolo di Cavaliere di San Marco.  
Presumiamo che Don Marc'Antonio fosse ben conosciuto e stimato dall'Abadessa e dalle Monache del Monastero di Murano, e che queste ne avessero risconosciute le giuste doti per una sua candidatura a Rettore Curato della Chiesa di Camalò.

La sua nomina a rettore-curato di Camalò
Infatti, il 24 marzo del 1745, dopo la rinuncia del precedente Rettore don Francesco Moretti, le stesse Monache, a seguito del favorevole esito della votazione del loro Capitolo,  lo proposero al Vescovo di Treviso (Benedetto De Luca) perché ne verificasse l'idoneità.
Previo esame canonico, come previsto dal Concilio di Trento, il predetto Vescovo rilasciò il Decreto di idoneità il 1° aprile 1745 ed il successivo 10 aprile l'Abadessa Angelica Diedo emise a sua volta il Decreto della sua nomina a Rettore-Curato di Camalò.
Il 23 maggio dello stesso anno, don Severo Luigi Zini - Vicario dell'Abazia di Lovadina (abazia dipendente dalle Monache di Santa Maria degli Angeli di Murano) - aveva comunicato al nuovo Rettore l'intenzione di fare una Visita a tutte le Chiese soggette al Monastero. Lo aveva invitato, perciò, ad effettuare un previo controllo dei beni di pertinenza della sua Chiesa, nonché una revisione dei registri contabili, compresi quelli delle Confraternite, e a preparare l'inventario delle suppellettili.

Primi problemi con il Monastero di Murano
Questa visita non aveva sortito evidentemente i risultati attesi, se l'Abadessa si era vista costretta ad  inviare una lettera al neo-Rettore, con la quale lamentava l'inosservanza delle direttive impartite, ma, soprattutto, si diceva stupita per il mancato versamento dei tributi previsti. Nel contempo, invitava il prete inadempiente a recapitare il dovuto direttamente presso il Monastero. (22 luglio 1745).

Carattere ligio ed intrasigente
Come si verrà poi a sapere, don Marc’Antonio, una volta preso possesso della parrocchia, aveva cercato di adempiere, oltre che ai suoi doveri pastorali, anche a quelli amministrativi, scoprendo, così, alcune irregolarità contabili, soprattutto da parte delle Confraternite (o Scuole).
Da tutte le deplorevoli vicissitudini che ne erano conseguite, e che si andranno ora a conoscere, sarà possibile farsi un’idea della personalità di questo sacerdote: sicuramente persona preparata e sicura di sé, ma anche irremovibile nelle proprie decisioni e poco accomodante.

Problemi anche con la Comunità di Camalò, che si divide in due fazioni: pro e contro il prete
Con la sua ostinazione a fare chiarezza sulla dubbia situazione economica riscontrata fin dal suo ingresso, il nuovo curato si era attirato l’ostilità di una parte dei suoi parrocchiani, soprattutto di quelli più o meno coinvolti nella conduzione economica.
La comunità, come in certe parti ancor oggi accade, si era divisa in due fazioni: l’una favorevole alle scelte del nuovo parroco e l’altra decisamente contraria.
Naturalmente, la parte ostile, non potendo attaccare il sacerdote per la questione economica dal momento che il vaso di Pandora era ormai scoperchiato, aveva cercato di metterlo in cattiva luce presso le Monache di Murano, presso il loro Vicario dell’Abazia di Lovadina e presso il Vescovo di Treviso, criticando il suo modo di esercitare il ministero pastorale.
Forse anche su pressione dello stesso Parroco, che intendeva così prevenire prudentemente gli eventi in considerazione dell’aggravarsi della situazione, il 26 luglio 1745 si erano radunate (il documento usa il termine “volontariamente”), presso la casa canonica, le persone a lui favorevoli e, alla presenza del notaio Regazzi, avevano redatto e sottoscritto un documento con il quale dichiaravano che don Marc’Antonio fin dal suo ingresso in Camalò non aveva mai mancato alle sue incombenze, cioè di “predicare ogni Festa, far la Dottrina ed il Catechismo; era provetto nel battezzare e preciso nelle funzioni ecclesiastiche. Era stato sempre disponibile e caritatevole nell’assistere i moribondi…”.  Precisavano, altresì, di aver fatto questa testimonianza giurata qualora si fosse resa necessaria per “distruggere tutte le calunniose imposture da parte di malevoli e poco buoni Cristiani…”.

Il documento era stato sottoscritto da:

  • don Zuane Cion della Villa di Spresiano, che funge da cappellano tutte le feste a Camalò

  • Biasetto Appollonio fu Carlo in rappresentanza del fratello Biasio huomo di Commun

  • Tonon Francesco fu Antonio, altro huomo di Commun

  • Martini Steffano fu Dona’             

  • Martini Santo fu Agostin                             

  • Zanatta Anzolo fu Gerolamo

  • Massari Domenico fu Giacomo

  • Martini Battista fu Agostin

  • Zanatta Zuanne di Bortolo

  • Tesser Lorenzo fu Paulo

  • Piazza Zuane fu Vettor

  • Carettin Domenico fu Zuane

  • Bardini Giovanni Maria fu Antonio

  • Martini Mattio fu Tomio

  • Martini Nicolò fu Domenico

  • Bordignon Mattio di Domenico

  • Bolzon Antonio fu Pelegrin

  • Zanatta Silvestro fu Santo

  • Crema Giacomo fu Gasparo

  • Zanatta Jseppo fu Santo

  • Tonon Andrea di Valentin

  • Martini Giacomo fu Battista

  • Martini Zuane fu Anzolo

  • Tonon Martin fu Antonio

  • Bonisiol Liberal fu Niccolò

  • Specie Battista fu Marco

  • Tesser Liberal fu Carlo

  • Martini Camillo fu Battista

  • Martini Andrea et Zuane fu Gerolamo
    ed avevano concluso: “tutti uomini concordi motu proprio per pura espressione della verità, attestano come sopra et attesteranno ovunque fosse bisogno …”.

 

La decisione di portare i documenti contabili presso la Cancelleria Pretoria di Treviso
Il Reatti, comunque, probabilmente per evitare prevedibili interferenze, nel frattempo aveva pensato bene di portare presso la Cancelleria Pretoria di Treviso tutti i documenti contabili sospetti, affinché fossero esaminati dall’Autorità competente.
Questa scelta aveva provocato un aggravamento delle tensioni nei rapporti con la parte dei parrocchiani a lui avversa.

Iniziative di don Severo Luigi Zini, Vicario dell'Abazia di Lovadina (abazia dipendente dalle Monache di Santa Maria degli Angeli di Murano)
Così mettendosi le cose, il Vicario don Zini, con il consenso dell’Abadessa, aveva considerato l’opportunità di trovare un sacerdote da affiancargli, che potesse fungere da buon intermediario nelle relazioni con la Comunità e così sedare un po’ gli animi. Il Reatti stesso, a tal fine, aveva anche proposto il nome di un prete di cui egli si fidava.  Era stato scelto don Marco Pollo, cappellano di Maserada. Prima, però, di presentare il candidato al Vescovo per l’approvazione, lo stesso don Zini aveva organizzato un incontro tra i due preti presso l’abitazione di un certo Fabro di Santandrà, affinché facessero la reciproca conoscenza (missiva del 21 marzo 1747) e ciò porta oggi a pensare che il cappellano di Maserada non fosse stato la persona suggerita dal Reatti.
Il Vicario aveva approfittato di questa occasione anche per invitare don Marc’Antonio a ritirare i libri contabili dalla Cancelleria Pretoria, assicurandolo, forse per rabbonirlo un po’, che alle spese per l’alloggio del nuovo prete avrebbe provveduto lui direttamente.
Con altra lettera del 26 marzo 1747 successivo, don Zini invitava il parroco a raggiungere don Marco Pollo, che già si trovava dal lunedì a Santandrà, per accompagnarlo il martedì mattina a Treviso per la presentazione. Poi, il cappellano avrebbe prestato il suo servizio a Camalò il sabato, il mattino delle feste, e tutti gli altri giorni dell’Ottava.
Nella stessa lettera egli esprimeva anche il proprio dispiacere per le “inquietezze” alle quali era soggetto e gli confidava che era a sua volta infastidito dalle continue lamentele: “Costoro (alcuni parrocchiani di Camalò, ndr) mi fanno impazzire anco io, ma conviene dissimuli, perché così vole la prudenza per la salvezza dell’jus del monistero; che se non fosse stato per il rispetto, che ho al medesimo, e la premura della giustizia non mi sarebbero venuti due volte a disturbarmi”.
Alcuni giorni dopo, l’Abbadessa aveva manifestato il proprio compiacimento al Reatti avendo da questi ricevuto assicurazione che era stata riconosciuta la correttezza del suo operare e che il Comune si era recato da lui a fare il suo dovere…(lettera del 15 aprile 1747).
Ma le cose non dovevano essere andate proprio così bene, se, il 10 maggio successivo, cinquantasei parrocchiani “uomini del Comun di Camalò” avevano scritto un’accorata supplica all’Abbadessa ed alle Monache affinché levassero loro “il Parroco torbido… che ha voluto la nostra cattiva sorte darci fatalmente”.
La ragione prima di quella istanza risultava essere sempre quella dei libri contabili delle Confraternite, in mano ancora alla Giustizia. Affermavano che per questo motivo nessuno più voleva assumere l’incarico di “massaro”, con conseguente pregiudizio di ciò che le Confraternite erano tenute a fare.
Il secondo motivo era quello di: “…havere un Parroco che ci odia apertamente”.  E ancora: “Noi non abbiamo l’innimico più giurato e più aperto del nostro Parroco…”.
A questo punto appare chiaro che per le Monache il fatto dei libri contabili era di primario interesse. Quali gravi irregolarità contenessero questi documenti non è dato di conoscere.
Le Religiose erano sicuramente preoccupate, tanto che, su pressione della stessa Abbadessa, il successivo 2 giugno 1747 il vicario era stato costretto ad intimare a don Marc’Antonio, e con risolutezza, di provvedere a far ritornare a Camalò quei libri, sotto minaccia di esborso di denaro proprio o di trattenuta dalle sue entrate, qualora alla Chiesa ne fosse derivato un danno economico.
Nella stessa maniera lo aveva ammonito affinché adottasse un modo di trattare “…più dolce e manieroso, che deve usare con lo stesso suo popolo, essendo cosa mostruosa che per la di lei continua aspra maniera vada lo stesso disperso or qua or là, ed abbandoni il suo proprio Pastore”, ed aveva concluso: ”Ci rissolvi addunque una volta di fare, ed esercitare ciò che gli viene incarricato da chi li può, e li deve comandare, e lei deve obbedire”.
Due giorni dopo, cioè il 4 giugno 1747, forse per essersi reso conto di aver usato toni molto forti, lo stesso don Zini gli aveva fatto pervenire una lettera con la quale gli garantiva comunque la sua stima e lo assicurava di non aver mai prestato fede “alli sussuranti”, ma gli aveva solo esposto le preoccupazioni delle Monache perché fossero sedate il più possibile le dicerie, senza pregiudizio del Monastero. Nel contempo gli suggeriva ancora di usare maniere, per così dire, più morbide.
Il successivo 9 giugno 1747, però, il vicario gli aveva inviato un’altra missiva informandolo che i suoi parrocchiani si erano recati nuovamente a “sturbare la quiete” al Monastero, non prima di essersi presentati a lui senza tuttavia ottenere alcuna soddisfazione. Per questo motivo aveva ricevuto l’ordine dall’Abbadessa di avvertirlo di recarsi presso di lei quanto prima per ricevere ordini diretti (avendo così l’opportunità di esternare anche direttamente le proprie ragioni, ndr).
Nel contempo, lo aveva invitato a non parlare con alcuno sui suoi movimenti e sulle sue idee, e questo per non esporsi allo scherno dei parrocchiani.
Da amico, con cuore in mano, gli aveva inoltre riferito che, se fosse stato al posto suo, avrebbe pensato di risolvere il tutto con una libera rinuncia “piuttosto ch’essere per bocca de’ villani, e pocco inteso, e rispettato”.
Nuovamente l’Abbadessa era tornata a richiamare il parroco “ribelle” e lo aveva minacciato che, se non avesse mutato atteggiamento nei confronti dei suoi parrocchiani, si sarebbe trovata costretta ad adottare le risoluzioni necessarie a tutelare il bene spirituale delle anime a lui affidate (lettera del 20 agosto 1747).
Ammonimenti, questi, risultati vani tenuto conto che, una ventina di giorni dopo, esattamente il 20 settembre 1747, i capifamiglia si erano riuniti in “vicinìa” per scrivere una petizione al Monastero di Murano affinché fossero adottati i necessari provvedimenti nei confronti del loro Parroco, giacché la situazione, a loro dire, era diventata insostenibile “…per il di lui troppo caldo e stravagante temperamento”.
Nella redazione del predetto atto avevano elencato, in particolare, tredici suoi comportamenti ritenuti gravi, alcuni accompagnati dai nomi di testimoni e, tra questi, alcuni preti:

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  1. Aveva trattato aspramente in pubblico il catechista Giovanni Maria Bardini - ritenuto da tutti uomo onorato e per bene, mentre insegnava la Dottrina in chiesa. Gran parte dei fedeli, scandalizzati, aveva lasciato la chiesa. Testimoni: il parroco di Ponzano e quello di Ramera.

  2. Aveva comunicato pubblicamente un’indulgenza assicurando la sua disponibilità a confessare ogni mattina, ma poi se n’era andato dietro ai suoi interessi, lasciando il compito ad altro prete (don Bastian Feltrin). Questi, per disposizione di don Marc’Antonio, aveva confessato solo i fedeli di Selva che si erano presentati, ma non quelli di Camalò. Testimoni: Maddalena Martini, Maria Martini e don Angelo Martini.

  3. Maddalena Martini, di anni 81, si era recata a lui per confessarsi ma, per avergli detto che era troppo rigoroso, si era vista negare il sacramento ed era tornata a casa tutta umiliata ed avvilita.

  4. Anna Martini era andata a chiamarlo per visitare la nuora gravemente ammalata. La visita era avvenuta quando meglio gli era piaciuto ed aveva rimproverato la suocera dicendole che la nuora si trovava in quello stato perché le aveva fatto fare una brutta vita. Al ché la donna gli aveva chiesto da chi l’avesse saputo, ed aveva avuto come risposta: “…dalla vostra confessione”.  Aveva ripetuto la visita una seconda volta portando all’inferma il Santo Viatico e ciò senza avvertire quelli di casa.

  5. Dopo le Feste di Pasqua era andato a fare visita a Girolamo Martini, anch’egli gravemente ammalato. Poiché questi non aveva ottemperato al precetto pasquale, lo aveva rimproverato aspramente tanto che l’infermo era rimasto così intimorito da provocare l’innalzamento della febbre e non aveva potuto disporsi a ricevere i Sacramenti. Testimoni: Girolamo Martini suo padre, Bortolo Martini fu Girolamo e don Angelo Martini. La stessa cosa era accaduta ad Agostin Masobel, testimoni suo figlio e don Angelo Martini.

  6. Cattarina Bolzon era andata a chiamarlo più volte per visitare sua figlia, pure gravemente ammalata, ma le era stato risposto che questa sarebbe dovuta andare a ricevere i sacramenti in chiesa perché non era vero che stava male. Quando finalmente si era deciso di andarvi, era già troppo tardi e non aveva potuto che amministrarle l’estrema unzione. Testimoni: il padre dell’inferma e Biasio Martini fu Agustin.

  7. Valentin Tonon – ormai ottantenne – era andato a confessarsi ed il parroco gli aveva chiesto cosa gli avesse mormorato contro. Il vecchio aveva risposto che non aveva detto nulla di male se non che avrebbe avuto piacere che il prete se ne andasse dal paese piuttosto che essere sempre in lite. Intimorito, aveva preferito farsi portare successivamente a Postioma (per confessarsi).

  8. Ad Antonio Giacometti aveva proposto di intervenire sulla canonica per farla in qualche modo cadere per poi costruirne una a suo piacimento.

  9. A Giacomo Crema aveva riferito che per quanto fosse durata la sua permanenza in Camalò non vi sarebbe stata più pace, né avrebbe mai perdonato ai Martini.

  10. Aveva negato per tre volte consecutive l’Eucaristia ad Andrea Martini, amministrandogli la Comunione solo la quarta volta. Ciò per far vedere che era indegno di ricevere un tale Sacramento. Testimoni: don Angelo Martini e Battista Martini.

  11. In canonica aveva asserito di negare a molte persone la Comunione Pasquale. Testimoni: don Angelo Martini e Nicolò Martini detto Campaner.

  12. Aveva celebrato le messe quando aveva voluto e senza la presenza dei massari. Aveva anche affermato che ogni volta che si fosse trovato con un certo numero di Messe da celebrare, avrebbe celebrato “un Messon” e con questo avrebbe soddisfatto a tutte le altre messe non celebrate. Testimoni: Paolo Bardini e Angelo Zanatta.

  13. Aveva anche detto di voler dare la maledizione a tutti i parrocchiani. Testimoni: Battista Martini e Agustin Masobello.

 

Il Vicario don Zini era tornato a scrivere ancora al Reatti per difendere la propria opera di mediazione. 
Gli aveva riferito di essere a conoscenza che alcuni suoi parrocchiani sospettavano che in tutta questa vicenda vi fosse stata l’intenzione di assegnare ad altro prete quel “beneficio” (la parrocchia di Camalò), ma che così non era.
Si era lamentato per i molti disturbi e disgusti causati da questa situazione, ma lo aveva rassicurato di averlo comunque sempre difeso e sostenuto nei confronti delle Monache, già risolute nei suoi confronti.
Si era detto dispiaciuto perché gli inviti rivoltigli affinché mutasse la sua eccessiva irruenza nel trattare con il popolo non avevano avuto riscontro.
Aveva cercato, poi, di convincerlo che in quella parrocchia non sarebbe potuto più star bene neppure se avesse fatto miracoli; troppi i parrocchiani contro di lui, spontanei o forzati, ed il rimanere ancora in quel posto gli avrebbe procurato più danni che vantaggi.
Lo aveva rassicurato di non aver usato parzialità nel trattare la vicenda, per cui si sottometteva soltanto al giudizio non degli appassionati, ma di chi realmente può giudicare (24 settembre 1747).
Un paio di giorni dopo, lo stesso Vicario aveva nuovamente scritto a don Marc’Antonio e si era lamentato con lui perché disattendeva ancora ai suggerimenti che gli aveva appena impartito più con affetto di Padre che di amico, e non per il piccolo grado che indegnamente rivestiva.
Più volte si era trovato ad affrontare con veemenza quella gente (di Camalò, ndr) in tumulto, dimostrandosi adirato verso di essa, dopo averla minacciata per la sua petulanza e per il suo ardire verso il proprio Pastore, ed averla esortata, quindi, alla pace ed alla tranquillità necessarie per la sua salvezza.
Per questo aveva anche subìto un affronto da uno di loro che in casa del signor Nardari così si era espresso: - Padre si coglione mio (perdoni il termine villano) voi tenete dalla parte del Piovano! -. 
Si era, altresì, lamentato perché, in cambio di tutto questo aiuto, non solo non aveva notato risultati concreti, ma era venuto a sapere che egli andava addirittura dicendo con disprezzo che del Vicario di Lovadina non gliene importava praticamente nulla e che "è un minchione se crede voglia rinonciare".  
A motivo di tutto ciò aveva deciso che da allora in poi non gli avrebbe dato più consigli, né avrebbe percorso altre strade a suo favore se non quella dell’esecuzione dei comandi, e, data la situazione diventata insostenibile, lo aveva invitato a lasciare la parrocchia ed a trasferirsi per qualche tempo a Venezia. (26 settembre 1747).

A don Marc'Antonio viene intimato di lasciare per qualche tempo Camalò
Infatti, qualche giorno dopo, sempre attraverso il predetto Vicario, l'Abbadessa gli aveva fatto pervenire l'ordine di trasferirsi a Venezia senza alcun rinvio, desiderando, se mai possibile, salvare et sopire ogni cosa (29 settembre 1747).
Il Reatti, quindi, in obbedienza alle disposizioni impartitegli dalle Monache, aveva in breve lasciato Camalò, ma alcuni parrocchiani, appresa la notizia, il mattino del 12 ottobre 1747 avevano fatto trovare delle lenzuola esposte a mo' di bandiera agli angoli principali del paese, con questa scritta:

 

Sù via dunque
popolo di Camalò
che alla fine
dopo tanti stenti
che hai fatto
per superar li tuoi
e miei avversari
l'hai superati.

 

A tenerlo aggiornato sull'andamento della comunità durante la sua assenza, aveva provveduto don Eustachio Francesconi, parroco di Paderno, al quale il Reatti aveva scritto anche per avere ragguagli in altre cose.
Don Eustachio, con missiva del 21 ottobre 1747, gli aveva, quindi, fatto sapere di aver convocato la signora Antonia (perpetua di Camalò?) e che questa si era presentata in ritardo e a piedi, perché il Meriga non le aveva concesso l'utilizzo della cavalla per timore che se la portasse via. Per di più non aveva portato con sé le carte ed era dovuta ritornare a casa, ancora a piedi, a prenderle. Nel secondo viaggio, però, l'aveva seguita il Meriga il quale, tuttavia, forse per timore di essere rimbrottato per la scarsa carità che stava dimostrando nei confronti della donna, si era fermato a debita distanza dalla canonica.
Da quello che è stato possibile capire, le carte facevano riferimento a qualche sospeso contabile relativo alla celebrazione di  sante Messe ed altro, di cui la solerte perpetua aveva informato tale Polesso (presumibilmente fabbricere cassiere), il quale aveva assicurato la spedizione di quanto dovuto, appena fossero stati fatti i conteggi. 
L'Antonia aveva anche riferito di aver utilizzato tre lire per mantenere don Giovanni Maria Zambon che lo stava sostituendo in parrocchia. Di denaro ve ne sarebbe stato dell'altro se non si fosse aggiunto anche  il Cappellano di Volpago con mille pretesti, asserendo di aver ricevuto l'incarico dalle Monache di Murano di recarsi a Camalò per la cura delle anime. 
Infatti, dopo che la domenica 8 ottobre 1747 una commissione di contadini si era recata a Lovadina (dal Vicario, ndr), il citato Cappellano di Volpago si era presentato a Camalò ed aveva preteso dalla signora Antonia la consegna delle chiavi di tutto quello che potesse appartenere alla cura e alla chiesa, dopo essersi qualificato come Economo.
Costui, poi, si era anche portato il lunedì successivo alla Congrega di Selva, con grande stupore dei presenti, desiderosi tutti di sapere con quale carattere si portò
In quell'occasione, i parroci della Congregazione avevano stabilito di non ripartire alcun beneficio economico con il nuovo arrivato, decidendo di consegnare al Reverendissimo Primicerio (paragonabile, forse, all'attuale Vicario Foraneo, ndr) la quota spettante al Reatti, in attesa dell'evolversi dei fatti lui riguardanti.
Nella stessa lettera, il parroco di Paderno aveva riferito di aver sentito dire, anche nei paesi vicini, che "li contadini di Camalò anno preparati li fuochi che hanno da fare quando saprano di certo che Vostra Signoria Reverendissima abbia renunziato il Benefizio". 
Secondo l'opinione di tutti i confratelli della Congreazione, se ciò si fosse verificato (rinuncia al Beneficio, ndr), ne sarebbe derivato pregiudizio per tutti. Di questo stesso parere era anche il reverendissimo di Arcade, il più savio e il più dotto di tutti.
Il Cappellano, inoltre, andava dicendo che, nell'ipotesi di una rinuncia, solo a lui sarebbe dovuto andare il Beneficio.
Don Eustachio aveva anche esortato il Reatti a "pregar le Reverendissime Madri a definire tal affare, e venire alla sua cura, perché tutti che li vogliono bene l'aspettano perche già lo sa anco Vostra Signoria Reverendissima che in Camalò sono più quelli che li vogliono bene che quelli che li vogliono mal, però si sbrighi e per l'avvenire si regoli, che il tutto passarà bene; quando però non vengano di nuovo ascoltati li maligni, che Iddio sij quello che li perdoni".
Gli aveva anche comunicato un' altra novità, cioè che il Cappellano di Volpago aveva indetto una cerca di biada a favore del Reatti su ordine delle Monache per mezzo del Vicario di Lovadina (giustificazione poco credibile per don Eustachio), aggiungendo che se avesse lasciato il Beneficio gliene avrebbe dati anche vinti sacchi.
Ancora, il nuovo prete continuava a lusingare la povera perpetua Antonia promettendole che, se fosse rimasta con lui, l'avrebbe pagata dieci soldi all'anno e le avrebbe dato da mangiare. Questa, tuttavia, stava facendo tutto malvolentieri e non vedeva l'ora che ritornasse don Marc'Antonio.
Così aveva concluso la sua lunga relazione il parroco di Paderno:

 

"Averta pure che il sudetto religioso (Cappellano di Volpago, ndr) mangia e fa mangiare da don Anzolo di Camalò (dovrebbe trattarsi di don Angelo Martini, schierato con la parte di comunità avversa al Reatti, ndr) il suo pane et il suo vino, con il fieno per cavallo dicendo che deve vivere perche fanno le sue vezzi (=veci).  Ancor questa l'averto che il religioso sudetto a detto che tanto Vostra Signoria Reverendissima quanto altro preve (=sia il Reatti che altro prete) anno delle querelle al Consiglio dei X, ma questo credo lo dica per poner in agitazione la signora Antonia.
Le lettere di Lovadina annesse le ritrovarà che pregola non vadino perdute, che devo restituirle.
Il matrimonio fu fatto dal Capellan di Volpago lunedì caduto (=scorso), con qual carattere io non lo so, se non suppongo con la scorta della patente che tiene dalla Curia; nel libro dei Matrimoni si vedrà come si nota.
Li contadini domenica caduta (=scorsa)  anno fatto benedire li suoi animali dal sudetto religioso, e li fanno mille finezze, ma mi è stato detto che vi sono molti che non lo hanno accaro (=non lo gradiscono), per causa che fa negozij (=intrallazzi, traffici).
Gran scelerati, dal carattere si potrebbe venire in cognizione.
La signora Antonia con il soldo mi spedisse anche una bandiera, che inclusa la ritrovarà, è questa assieme con molte altre fu posta su li cantoni della Villa di Camalò, però de la vuole mostrare alle reverendissime Madri per far vedere la malignità di coloro la spedisco a posta.
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PS: questa mattina mi capita il soldo delle messe, che lo spedisco a questo, e lire 16.
Paderno 21 ottobre 1747.
La signora Antonia mi impone salutarla, e augurandoli dal Signore ogni bene, di cuore sono di Vostra Signoria Reverendissima.
Lei mi averà già per compatito se troppo mi sono prolongato in scrivere..."

 

Umilissimo Devotissimo Obligatissimo Servo
Don Eustachio Francesconi pievano.


Ritorno da Venezia
Partito da Camalò nei primi giorni ottobre, il sacerdote risultava già di rientro per le festività natalizie di quello stesso anno 1747.
L'assenza temporanea dal suo esercizio ministeriale in parrocchia non gli aveva fatto mutare atteggiamento, ed i rapporti con taluni parrocchiani non erano per nulla mutati.
Così tale Francesco Zanata, figlio di Zuane, aveva testimoniato che messer Liberal Tesser si era recato presso il parroco per riconciliarsi e per fare le debite sue devozioni, ma che era stato da questi cacciato con le malle parole e che non aveva voluto darli li Santissimi Sacramenti.
Ciò non bastasse, anche Jo Mattio Martini del fu Antonio, Andrea Martini del fu Gerolamo, Jo Mattio Zanata del fu Zuanne e Antonio Bonuta avevano dichiarato che il prete era andato a riscuotere la sua decima da tale Bastian Pocebon detto Menegoto, con una pistola al fianco. L'aveva anche strapazzato dicendogli che i soldi li aveva, però, per andare a Venezia a querelarlo dalla Madre (=Abadessa). Successivamente l'aveva fatto chiamare e gli aveva proibito di riferire ad alcuno di essere stato maltrattato, perché non era vero. La donna del Pocebon aveva confermato di aver visto la pistola.

Il Vicario Zini mantiene la sua posizione critica ultimamente assunta nei confronti del Reatti
Con lettera del 10 gennaio 1748, il vicario di Lovadina aveva presentato all'Abadessa una sua aggiornata relazione sulla situazione di Camalò, non prima di aver raccolto le debite informazioni sul comportamento e dei parrocchiani e del loro parroco. 
Per quanto riguardava il popolo, era stata riscontrata pochissima affluenza alle funzioni religiose nelle festività natalizie ed ai sacramenti. Molti, comunque, si erano recati per le loro devozioni presso le parrocchie limitrofe, in particolare presso quella di Povegliano, aggravando gli impegni di quel parroco. Altri dovevano ancora accostarsi ai sacramenti sin dal tempo pasquale. Ciò era imputabile, secondo il relatore, all'aspro e disgustosissimo modo di trattare le persone da parte del loro pastore, il quale era giunto a dire finanche dall'altare che un solo Iddio lo potrà levare da quel luogo, e che non sarà mai contento se non vederà qualche numero de suoi parrochiani in galera.
Inoltre, queste ed altre simili maniere aveva deciso di mantenere il Reatti nei confronti di alcuni suoi parrocchiani, senza alcun riguardo perfino per gli ammalati, tanto che uno di questi così si era espresso con i suoi di casa: "pacienza dover soccombere alla morte, mà l'anima mia, come assistita, come la salverò, se non posso né so con chi conciliarla con Iddio, né so à chi affidarla alla mia salute". Stando così le cose, per la poca unione, il poco amore e l'ancor minore stima il frutto delle anime và disperso, se non affatto perduto. La chiesa perde l'elemosine e li contadini perdono l'affetto alla medesima intendendo di più che tutto vada in disordine.

Don Marc'Antonio Reatti tenta il suicidio
Se, come si dice, l'acciaio si spezza ma non si piega, questa massima bene si adatterebbe al carattere di questo prete. Da ciò che si è potuto arguire fino a questo momento, il suo carattere poteva essere paragonato all'acciaio. Ma, come l'acciaio, se sottoposto ad una pressione oltre il limite della sua resistenza, si spezza improvvisamente, così era avvenuto anche per lui.
In una data non nota, ma compresa tra il 22 dicembre 1747 ed il 26 gennaio 1748 (annotazioni di archivio, ndr), di notte, il sacerdote aveva posto in essere l'insano tentativo del suicidio per impiccagione. Tentativo rimasto tale grazie all'intervento del nipote Zuanne che si trovava provvidenzialmente in canonica, e di altre persone accorse alle grida. Tutto ciò testimoniato da messer Liberal Tesser (lo stesso al quale il Reatti aveva rifiutato il tenativo di riconciliazione ed aveva negato i sacramenti?, ndr) e da Domenico Zanata del fu Lorenzo.

Il parroco non demorde
Consigliato e sostenuto dall'amico Giacomo Bertoldi, don Marc 'Antonio aveva in ogni caso deciso, ed in modo risoluto, di far valere le proprie ragioni nei confronti di quei maligni, ai quali havrebbe chiusa la bocca. 
A tale scopo il Bertoldi aveva, poi, incontrato l'Abadessa di Murano più volte, senza, tuttavia, ottenere da questa l'attesa disponibilità, soprattutto per il fatto che il Vicario di Lovadina si era ormai definitivamente espresso contro il Reatti a causa, come già riferito, delle insistenti lamentele di alcuni abitanti di Camalò che lo avevano indotto a cambiare opinione. La Monaca, comunque, gli aveva suggerito di procurare quanti più attestati possibile di parroci vicini, che confermassero la verità e la sua serietà. La solidarietà non si era fatta attendere.
Il primo febbraio 1748, riuniti nella Congregazione di Cusignana, i parroci di molte parrocchie limitrofe avevano redatto un documento sottoscritto, con il quale affermavano che Marc'Antonio Reatti attuale parroco della chiesa parrocchiale di San Matteo di Camalò è di sana dottrina, retti e chiari costumi, attende alla cura delle anime, compie in tutto e per tutto il suo ministero, fa opera di evangelizzazione, contrariamente alle calunnie contro di lui diffuse.
Questi i nomi dei parroci:

 

  • Gregorio Citti di Nervesa

  • Paolo Battaglini di Selva

  • Angelo Favaro di Bavaria

  • Giovanni Biffi di Giavera

  • Francesco Vendramino di Villorba

  • Michele Gianoni di Santandrà

  • Eustachio Francesconi di Paderno

  • Giuseppe Betolli di Spresiano

  • Jacobo Bianchetti di Arcade

  • Federico De' Antoni di Povegliano

  • Francesco Maria Meneghetti di Cusignana

 

Il 3 febbraio 1748, per perorare la causa e difendere il loro parroco si erano recati a Lovadina dal Vicario anche Santo Zanatta, Giovanni Zanatta e Martin Tonon. Qui, però, avevano trovato altre tre persone di Camalò, ma per il motivo opposto!
Il 7 febbraio 1948, l'Abadessa Maria Chiara Felice Capello aveva scritto una ennesima lettera al Reatti, lamentandosi perché le erano pervenute molte deposizioni contro di lui dal popolo di Camalò. Lo aveva invitato, perciò, di procurarsi almeno una trentina di testimoni a suo favore, e tutti di Camalò.


         
         (continua... - articolo in attesa di completamento delle ricerche documentali
)

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