Orazio Zanotto

Luciana
ricordi di una piccola emigrante di Camalò
Premessa
L'autrice, originaria di Camalò e traferita in Francia con la famiglia nel 1948 all'età di nove anni, ha ora raccolto tutti i suoi ricordi in un libro “ Luciana Borsato - Une enfant de Camalò – Souvenirs”. Il testo è in francese.
Ho trovato quest'opera molto bella ed interessante anche perché rispecchia la vita di tante famiglie del tempo, costrette ad emigrare alla ricerca di una vita migliore rispetto a quella grama delle nostre campagne.
Luciana è evidentemente dotata di una memoria nitida e precisa, tale, comunque, da suscitare meraviglia per la dovizia di particolari nella narrazione di eventi da lei vissuti e nelle descrizioni ambientali. Il lettore viene quasi a trovarsi egli stesso testimone oculare di ciò che viene raccontato. Anch'io mi sono ritrovato in quel clima, in quegli ambienti, in quelle attività agricole tipiche di allora.
Non esistendo una edizione in lingua italiana, mi sono permesso di farne una libera traduzione. (L'autrice, interpellata da un cugino, si è dichiarata d'accordo con questa iniziativa, purché non se ne tragga profitto commerciale)
Ripropongo ora un breve stralcio di ciò che Luciana ricorda della sua infanzia nella casa rurale paterna di Camalò, tratto dal Capitolo:
LO SCORRERE DELLE STAGIONI
L'INVERNO
Situato in una grande pianura agricola, a metà strada tra Venezia e i piedi delle prime montagne alpine, il mio paese di Camalò conosceva inverni molto rigidi.
Un vento gelido soffiava spesso molto forte e la neve, che a volte cadeva in abbondanza, copriva i campi dietro la casa. La neve si accumulava per settimane sul terreno ghiacciato nel grande cortile della casa.
Tornando da scuola, quando la scuola c’era, i bambini si affrontavano a palle di neve fino a sera, con le guance arrossate dal freddo e i piedi congelati nelle galosce.
Ricordo che, a volte, dovevo attraversare il cortile sulla schiena di mio padre mentre mi portava dalla sua sartoria alla stalla, l'unico posto un po' caldo a quel tempo, dove ritornavamo dopo cena per memorabili filò.
Le mie dita dei piedi, doloranti per il congelamento, non potevano più permettermi di indossare scarpe normali. Camminare diventava molto difficile...
Ma quando non soffrivo di congelamento, quando la giornata di sole prevedeva una notte stellata e fredda, allora al crepuscolo, prima di andare a letto, io e i miei compagni gettavamo secchi d'acqua nelle zone d’ombra del cortile. Soprattutto nella parte posteriore della casa, sul lungo muro del fienile. E la mattina toccava a noi goderci le bellissime slittate su questa pista di ghiaccio improvvisata!
Momenti magici, che felicità! Mi lanciavo su questa pista di ghiaccio improvvisata, un piede davanti, l'altro dietro... I chiodi sotto le mie galosce scricchiolavano sul ghiaccio e le mie grida di gioia risuonavano alle orecchie preoccupate di mia madre, che temeva sempre, e a ragione, una caduta sfortunata.
Ricordo una scena epica di zia Alda di Torino.
Una mattina si era messa un paio di pantaloni larghi di suo marito, e posso ancora vederla lanciarsi a forte velocità su quella rustica e larga pista di ghiaccio!
La zia Alda aveva suscitato una grande impressione e il suo abbigliamento aveva scioccato molti. Questo era un fatto scandaloso per il paese, all'epoca: una donna, vestita con i pantaloni, alla casa Borsato! Questo non si era mai visto prima, né in casa né nel paese di Camalò... Immaginate "una donna in pantaloni"!
Le voci non le avevano impedito di continuare ad accompagnarci, vestita così, in belle pattinate. Chinandosi come un uomo, ignorando tutti i pettegolezzi, aveva preso un grande piacere e con lei avevamo condiviso mattinate felici.
I cugini più grandi, figli Battista, scolpivano forme di animali in cumuli di neve indurita e trasformata in ghiaccio dal freddo.
Questi animali stilizzati popolavano l'aia per alcuni giorni e poi si scioglievano gradualmente con i primi raggi di sole.
Per farsi un passaggio dalla strada all'ingresso della casa, e dalla casa alla stalla e ai vari annessi, gli zii, muniti di grandi pale, scavavano sentieri, vere e proprie trincee, nello strato di neve molto spesso che si era accumulato da diversi giorni. Solo la mia testa spuntava da queste trincee di neve, e non sempre.
In questa stagione invernale, la sera, dopo la cena, spesso costituita da una grande ciotola di latte caldo appena munto dalle mammelle delle mucche, e polenta, tutta la famiglia, nonni, zii, zie, cugini, si riuniva nella stalla.
Si approfittava del calore animale emanato dalle mucche. Queste ruminavano pacificamente contro la parete posteriore del fienile. Sul loro letto di paglia pulito, presentavano le loro chiappe al pubblico che eravamo noi. Chi si sedeva su panche di legno, chi su sedie di paglia.
Il nonno, nel frattempo, aveva il privilegio di dondolarsi su una sedia di vimini fumando al bocchino della sua pipa imbottita di tabacco grigio e amorevolmente stretta nel palmo della mano.
Tra noi e le lettiere delle mucche, una gronda cementata raccoglieva l'urina degli animali e la scaricava attraverso un foro all'esterno della stalla. Per tutta l'illuminazione, una pallida lampadina, appena sormontata da un piccolo vassoio bianco a forma di piatto rovesciato, pendeva dal soffitto.
Le due finestre sulla parete destra illuminavano questa stalla.
I loro vetri, rimossi in estate per ventilare lo spazio, venivano riposizionati in inverno e accuratamente sigillati... con sterco di mucca!
A sinistra, un muro ci separava dalla stalla del cugino Nanni, e un grande buco nel soffitto mostrava una botola che permetteva di far scendere il fieno dal fienile per l'alimentazione del bestiame.
Il filò iniziava con il rito della recita del rosario, che la nonna e gli adulti sgranavano. Il nonno era il maestro di cerimonie e noi recitavamo una "decina" di Ave Maria in latino approssimativo, alcuni in piedi, altri inginocchiati sulle sedie.
Dopo di ché, si formavano dei gruppi. I più grandi tiravano fuori il mazzo di carte. "Spade", "bastoni", "danari", "coppe"!, annunciavano con orgoglio posando vigorosamente le loro carte su un piccolo tavolino. Giocavano a scopa o a briscola.
I bambini ridevano e giocavano tra loro, raccontandosi le loro storie.
A volte l’assemblea era chiamata a partecipare al gioco della tombola.
Un adulto seduto di fronte ai giocatori metteva una mano in un sacco di iuta e tirava fuori una piccola pedina di legno rotonda con un numero sopra. Comunicava ad alta voce il numero scritto sulla pedina. I giocatori che avevano questo numero su una delle caselle della loro tabellina di cartone, comprata al prezzo di una lira, ci mettevano sopra un fagiolo secco. Il primo giocatore che copriva di fagioli tutti i numeri della sua tabellina vinceva un premio. Poteva essere una piccola caramella o una bilia di terracotta. Il gioco finiva quando il “leader” aveva tirato fuori tutti i pezzi dal sacchetto. Il denaro "scommesso", il jackpot veniva assegnato al giocatore che aveva completato il maggior numero di tabelline.
Nel frattempo, in un angolo poco illuminato della stalla, alcuni giovani uomini corteggiavano le signorine, in questo caso le mie zie o le mie vicine di casa, che erano in età per incontrare il principe azzurro. Che bei ricordi, quelle serate invernali, al caldo degli animali! L'odore non ci dava troppo fastidio. Una felicità semplice, ma condivisa da tutti.
Spesso, uno del filò cantava una canzone e l'assemblea riprendeva in coro.
Alla fine di alcuni filò, nonna Isa, aiutata da una zia o da uno zio, portava dalla cucina un pesante pentolone pieno di vin brûlé, profumato con la buccia di un'arancia e qualche chiodo di garofano. Questo vino flambé aveva perso il suo alcool e la nonna distribuiva questa bevanda calda a tutta la piccola tribù i cui occhi brillavano per la golosità.
Un po' riscaldati da questa piacevole bevanda, nella notte fredda, attraversavamo poi rapidamente il cortile buio e tornavamo alle nostre camere gelate. I bambini piccoli condividevano la stanza con i loro genitori. Io e mio fratello minore dormivamo lì, testa-piedi, nello stesso letto.
C'erano molte camere in questa casa, ma non abbastanza perché tutti stessero bene. Così, i più grandi di ogni famiglia dormivano nel soér, su letti di fortuna.
Il soér era una sorta di grande spazio aperto situato al primo piano della casa rurale, appena sopra la cucina. Un'ampia scala di legno vi conduceva. Questa scala dava accesso alle camere sui lati est, sud e ovest della casa. Le finestre della facciata nord si aprivano sui campi e illuminavano questo spazio.
Non c'era riscaldamento, a parte la cucina al piano terra, che veniva usata soltanto durante il giorno.
Durante certi filò, per variare il gusto, assaggiavamo le cosiddette patate "americane". Queste erano quelle che oggi chiamiamo patate dolci. Molto apprezzate, perché molto dolci, completavano un pasto serale, a volte un po' leggero!
Anche le castagne cotte nell'acqua intrattenevano le nostre serate. Gli zii le raccoglievano in autunno, nei boschi della montagna vicina, nei boschi di Selva. Alcuni sacchi conservati al fresco della cantina del nonno erano sufficienti per superare l'inverno.
Ricordo di quel filò di Natale quando ci eravamo riuniti nella stalla. Credo fosse il 1946.
Era già buio. All'improvviso, zia Carolina chiamò mia cugina Maria, che aveva poco più di sette anni.
- Maria! - disse - se mi vai a comperare un'arancia dalla zia Tilde, te ne regalo la buccia...!
Nessuno immaginava che Maria avrebbe accettato questa sfida... Ebbene, sì, lo fece!
La tentazione era più forte della paura del buio della notte, e Maria attraversò il paese per andare a prendere questa arancia dalla zia Tilde che non aveva ancora chiuso il suo negozio!
La promessa fu mantenuta e, sulla via del ritorno, mia cugina quella sera godette di una fragrante buccia d'arancia... Senza pesticidi, all'epoca!
Da parte mia, troppo paurosa, non sarei mai riuscita in quella che era, ai miei occhi, un'impresa straordinaria. Pensate: attraversare il paese, persino camminare lungo le mura della chiesa, in piena notte! Per rischiare di incontrare, forse, strane creature vaganti nell'oscurità... Rabbrividisco ancora oggi.
L'arancia deve essere stato un frutto raro e molto apprezzato in quei tempi difficili.
LA PRIMAVERA
In primavera, dopo il rigido inverno, la vita tornava alla normalità e gli adulti delle due famiglie che condividevano lo spazio della casa rurale, la nostra e quella del cugino Nanni, una quarantina di persone a volte, tornavano alle attività agricole.
La semina poteva iniziare nei campi vicini, lavorati con l'aratro in autunno, e appena arricchiti con il fertilizzante naturale prodotto dalla lettiera delle mucche.
Il dolce calore del sole sostituiva gradualmente quello degli animali nella stalla.
La coltivazione del grano e del mais, così come una piccola produzione di latte, alcune pecore, due maiali, alcuni polli e conigli erano le principali risorse della casa.
Per diversi anni, la famiglia si era occupata nell'allevamento dei bachi da seta.
La sericoltura era fiorente nella nostra regione. Aveva fornito ai miei nonni un reddito aggiuntivo, che era stato il benvenuto in quei tempi difficili degli anni del dopoguerra. Così, nel primo caldo di primavera, in un angolo della stalla, veniva eretta un'impalcatura di scaffali orizzontali, uno sopra l'altro, sui quali venivano seminati piccoli vermi, appena più grandi dei grani di pepe.
Questi vermi strisciavano su centrini di carta grigiastra con molti piccoli buchi. La mamma e le zie nutrivano questi piccoli vermi striscianti con foglie tritate molto finemente, raccolte dai rami dei gelsi che costeggiavano il sentiero che portava ai campi.
Quando questi piccoli vermi diventavano un po' più grandi, venivano spostati, sempre su rastrelliere impilate una sull'altra, in un angolo della cucina. Era una bella costruzione lunga alcuni metri, e toccava quasi il soffitto.
Sempre nutriti di foglie di gelso, sminuzzate sempre più grossolanamente, strisciavano sulla carta con buchi più grandi e diventavano veri bruchi biancastri.
Poi arrivava la mossa finale. Venivano posati su letti di rami di gelso, stesi a terra, in tumuli, come tombe... e dove? Ma nel soér!
A me e a mio fratello minore Tito veniva assegnato un piccolo quadrato di rami di gelso su cui strisciavano alcuni bruchi. Come proprietari di questo piccolo tesoro, ne eravamo interamente responsabili.
Da parte mia, me ne prendevo molta cura e con mio fratello portavo loro più volte al giorno delle foglie di gelso appena raccolte. Sgranocchiavano rumorosamente e con grande appetito questo pasto quotidiano e abbondante.
Guardavamo e riguardavamo con stupore la loro trasformazione.
I nostri bruchi, sempre più bianchi e paffuti, si aggrappavano, dopo qualche settimana, ai rami incrociati piantati nella loro lettiera. Lì tessevano superbi arabeschi in filo di seta gialla, finta seta. Si arrampicavano su e giù su questi rami, facendo delle acrobazie. Che strana giostra davanti ai nostri occhi, non mi stancavo di guardarli..
Un bel giorno, niente più bruchi! Si erano gradualmente rinchiusi in un bozzolo soffice, di forma ovale, delle dimensioni di un grande uovo di piccione. Trasparente all'inizio, il bozzolo lasciava ancora vedere il bruco per qualche giorno, poi si ispessiva e il bruco si eclissava completamente e si trasformava in crisalide...
I bozzoli, quando avevano raggiunto un buon spessore, venivano raccolti e messi a bagno in una grande vasca piena di acqua calda (che aveva l'effetto di uccidere la crisalide all'interno del bozzolo e quindi impedirle di perforarlo).
Un filo di seta veniva estratto dal bozzolo e avvolto su un piccolo telaio con pale azionate a mano con una manovella. Spesso questi bozzoli venivano venduti, così com'erano, a un'azienda che si presentava a prelevarli in casa.
Dato che non possedevo alcuna bambola, le creavo io stessa con pezzi di stracci recuperati. Usavo i fili di seta gialla che i bruchi avevano prodotto, per adornarle con i bei capelli di principessa.
Nel frattempo, il grano era cresciuto nei campi e ogni contadino decapitava le "piume" del mais con un falcetto. Chiamavamo queste teste di mais i penaci.
Questi pennacchi servivano per l'alimentazione del bestiame. Tagliando la cima della pianta, la pannocchia poteva ingrossarsi maggiormente. Tagliati con il falcetto nel campo, venivano caricati su un grande carro trainato da due grandi buoi. Sulla strada dal campo alla casa, appollaiati e sdraiati in cima a questo mucchio di pannocchie, io e mio fratello, bambini allegri quali eravamo, sentivamo il loro profumo forte e inebriante mentre guardavamo le nuvole passare nel cielo. Mentre eravamo sdraiati sopra il carro, a volte avevamo la strana sensazione di andare avanti e indietro. Il carro veniva scaricato vicino alla stalla e poi ripartivamo per i campi, felici di ripetere questa gioiosa esperienza.
E che dire del periodo della fienagione?
Gli zii falciavano l'erba con una grande falce, la cui lama lunga, larga e tagliente doveva spesso essere affilata con una pietra speciale portata in un fodero attaccato alla cintura dei pantaloni. L'erba tagliata dal movimento avanti-indietro della falce rimaneva sul prato e si asciugava al sole per alcuni giorni. Gli zii la giravano con i loro forconi una o due volte di seguito, pregando il cielo che un temporale non ritardasse il loro lavoro. Questo fieno, abbastanza secco, riempiva il carro e veniva conservato nel fienile sopra la stalla. Il prato, così falciato, diffondeva un cocktail di profumi esaltanti.
I grilli erano felici e frinivano nell'aria calda della sera.
A Pasqua, le galline deponevano in abbondanza.
Papà, in qualità di organista della parrocchia, passava per le case del paese. Gli donavano uova fresche delle loro galline. Probabilmente era una tradizione legata alla sua funzione.
Accompagnato da mio fratello minore, dopo il suo giro quotidiano tornava a casa con cesti di vimini pieni fino all'orlo... Questa raccolta annuale durava circa quindici giorni.
Ogni sera, papà metteva con cura le uova in un enorme contenitore che si trovava in un angolo della sua sartoria.
Dopo Pasqua, le vendeva e teneva il ricavato per sé. Questo contributo degli abitanti del paese al mantenimento delle sue funzioni di organista nella chiesa, rappresentava probabilmente il suo stipendio personale come musicista. Credo che versasse gran parte del reddito del suo lavoro di sarto nella cassa del nonno.
Papà aiutava così a mantenere tutte le persone che vivevano nella in casa. Non dimentichiamo che eravamo alloggiati e nutriti dai nonni.
Ciò era necessario per compensare il fatto che papà lavorava nei campi solo le poche volte quando aiutava per il raccolto.
L'attività agricola poteva avere ripercussioni sull'agilità e la flessibilità delle sue dita, che dovevano "tirare l'ago" e "correre" sui tasti dell'organo.
Partecipavo volentieri, con altri bambini, a tutte le tradizioni della casa.
Così, sempre in primavera, si "batteva il martello".
Portando vecchie pentole inutilizzabili o vecchi coperchi ammaccati, ci mettevamo in fila nei prati dietro la casa rurale e, armati di una grande pietra, battevamo sui rottami metallici con tutta la nostra energia ed entusiasmo. Tutto ciò faceva un baccano incredibile, un rumore infernale, misto a grida di gioia nell'aria tranquilla del tramonto.
Questo rituale sembrava auspicare buoni raccolti di fieno, cereali e una buona produzione di vino per l'anno a venire..
L'ESTATE
E poi veniva il tempo della mietitura, alla quale tutti gli abitanti della casa erano obbligati a partecipare, vecchi e giovani, secondo le loro capacità.
Gli adulti mietevano il grano con una falce. Gli alti steli dorati ricoperti di bel grano cadevano nelle abili mani delle zie e degli zii. Alcuni mietevano, altri legavano i fasci in successione, altri ancora addossavano i fasci uno contro l'altro, formando piccole piramidi allineate nel campo. Dietro di loro, mentre masticavano alcuni chicchi di grano dolce, i bambini raccoglievano allegramente le spighe perse. Ben legati, i fasci di steli raccolti assomigliavano a dei bei bouquet e venivano portati con fierezza al parroco, nella canonica del paese.
Nel caldo intenso dell'estate, le mie zie si proteggevano dal sole, dalla testa ai piedi. Guanti e maniche lunghe coprivano le loro mani e braccia. I loro foulard, abilmente legati intorno al collo, mostravano solo i loro volti. Era importante non abbronzarsi! Una pelle abbronzata dal sole tradiva il fatto che appartenevano al mondo contadino, che non volevano! Mentre una pelle bianca poteva far credere che fossero ragazze di città.. Sognanti e molto civettuole, le mie giovani zie!
Per la trebbiatura del frumento, la grande trebbiatrice passava di casa in casa. Ogni famiglia del paese la ospitava a turno.
Questa macchina enorme e rumorosa ronzava nel cortile dietro la casa, dove erano stati ammassati i fasci di grano dopo il raccolto.
Questa impressionante macchina separava la paglia dal grano.
Uno dopo l'altro, i covoni presentati sull'estremità della forca di un uomo venivano afferrati da un secondo uomo che, in equilibrio sul pianale di un carro, li afferrava rapidamente e li gettava nella bocca della trebbiatrice. Sul fondo, il grano cadeva in un grande sacco di iuta che, una volta riempito, veniva rapidamente sostituito, legato con uno spago e caricato su un carretto.
Tutti questi uomini, con le loro braccia muscolose, vestiti con semplici canottiere, sudavano nel caldo e nel rumore infernale della trebbiatrice. A volte una leggera brezza, certamente apprezzata dai lavoratori, spostava la nuvola di polvere che li circondava e irritava la gola e gli occhi.
I sacchi di grano venivano poi immagazzinati nel granaio sopra le stanze del soèr. La paglia veniva portata nel soppalco sopra la stalla e usata come lettiera per le mucche.
La trebbiatura era una vera istituzione. Caraffe di vino fresco e fette di buon salame, prodotti della casa rurale, dissetavano tutta questa gente all'ora di pranzo. Seguivano gli scherzi degli adulti e le risate dei bambini.
La "festa" della trebbiatura si svolgeva fino alla fine della giornata, quando arrivava il momento di riposare dopo un tuffo rinfrescante nel ruscello..
Dopo la mietitura veniva il raccolto del mais.
Questa pianta aveva bisogno di molta acqua. Così, quando faceva molto caldo, si ricorreva all'irrigazione. Lo zio Piero, uno dei fratelli della mamma, si metteva la tuta da acquariòl e apriva le saracinesche della riserva d'acqua situata a monte dei campi. L'acqua arrivava a tutta velocità e durante una o due notti, dalla sera alla mattina presto, i miei due zii, Martino e Marcello, accompagnati da mio cugino Battista, camminavano, a piedi nudi, per i campi di mais. Si assicuravano che l'acqua prelevata dalle riserve fosse correttamente diretta nei solchi precedentemente scavati, e ben distribuita ai piedi degli alti steli di mais.
Anche qui, come per la trebbiatrice, i contadini facevano a turno per irrigare i loro campi, sempre di notte per evitare una forte evaporazione e lo spreco di acqua nel calore del giorno.
E qui, nuovamente, l'aiuto reciproco era attivo tra vicini.
Il mais veniva raccolto solo dopo che la pianta era diventata gialla e solo quando la base della pannocchia poteva essere facilmente staccata dal suo supporto.
Una volta che i lunghi steli venivano tagliati, come il grano, con un falcetto e legati in grandi fasci, venivano trasportati alla casa rurale su un carro trainato da buoi. Venivano essiccati, conservati per qualche giorno al riparo sotto il portico della stalla.
Poi, adulti e bambini formavano un grande cerchio intorno ai mucchi di questi steli disposti al centro del cortile e lavoravano allegramente tutto il giorno sotto il sole.
Il compito era quello di separare a mano la pannocchia dal suo gambo, un mucchio di steli a sinistra, un cesto di pannocchie a destra di ciascuno.
Le pannocchie venivano poi spogliate dei loro strati di sottili foglie secche. Lo zio Marcello, il fratello più giovane di papà, aveva fatto un piccolo strumento a punta con un grosso filo di rame che si adattava bene alla mano e rendeva più facile staccare le foglie dalla pannocchia una ad una.
Tra queste foglie, conservate in grandi sacchi di juta, le più sottili sarebbero servite per fare i nostri materassi, sostituendo così la lana delle nostre pecore.
Durante una visita al paese, lo zio Marcello mi regalò un esemplare di questo strumento molto raro, perché fatto da lui. Lo conservo ancora, lucidato dall'uso, prezioso come un trofeo, nel vaso delle matite dell'ufficio.
Per quanto riguarda la lana delle nostre poche pecore, veniva cardata e poi la maggior parte venduta.
Vedo ancora mia zia Carolina nella stalla, seduta su un piccolo sgabello. In ogni mano, teneva una grande spazzola rettangolare fatta di una tavola di legno grezzo con denti di metallo. Con movimento avanti e indietro e su e giù, incrociava una spazzola contro l'altra, districando e allungando i piccoli gomitoli di lana vergine. Una piccola quantità veniva filata e tinta in casa e trasformata in alcuni maglioni e calzini fatti a mano.
Sì, niente materassi di lana morbida per noi! Ma materassi fatti di foglie di mais, le brattee, che noi chiamavamo scartoffe, che ogni mattina venivano mescolate dalle mani esperte delle spose e delle madri incaricate di rifare i letti. Mettevano le mani all'interno del materasso attraverso le fessure aperte su entrambi i lati della copertura di stoffa e scuotevano vigorosamente le foglie, fornendo così il rigonfiamento necessario per un buon riposo.
Una polvere fine si diffondeva nella stanza, provocando alcuni starnuti e richiedeva un’aerazione un po' più prolungata...
Le spighe di grano, le panòce, ammucchiate in cumuli, si asciugavano nel granaio, sopra le camere del soèr, prima di essere messe in sacchi di tela e portate al mulino. In cambio, ricevevamo sacchi di farina che finivano come polenta calda nel calderone della nonna.
Una volta tolto il grano dalla pannocchia, rimaneva il supporto, il bòtoo, una specie di bastone biancastro a nido d'ape, lungo circa 20 centimetri, spesso usato per accendere la stufa o il fornello di papà, o anche come regalo di Natale per i bambini indisciplinati!
L'AUTUNNO
Poi arrivava il tempo della vendemmia. Ancora tutto un rituale.
Durante questi giorni, canti e risate gioiose venivano da tutte le parti e rallegravano la raccolta.
Che atmosfera, che felicità durante questi momenti indimenticabili!
I filari di viti contornavano i campi coltivati e li delimitavano. Non erano, come nei vigneti che conosciamo in Francia, tanti filari continui, bassi e accuratamente paralleli.
Le viti erano molto alte e a volte richiedevano l'uso di scale per raccogliere i bei grappoli luccicanti e pieni di succo dolce.
Da parte mia, oltre a degustare golosamente i chicchi d’uva sotto la pergola, accompagnavo i grandi tini riempiti di grappoli e trasportati in casa su un carro trainato dai buoi. Appollaiata sul retro di questi tini, mi aggrappavo al loro bordo alto e andavo avanti e indietro dalla vigna alla casa. Lungo tutto il percorso, sentivo tutti gli aromi che uscivano dai tini e piluccavo qualche acino d'uva al passaggio.
I grappoli venivano poi ammassati negli enormi tini di legno installati sotto il portico di casa per essere trasformati in succo, il preferito di nonno Romano.
Un'intera cerimonia, che non dimenticherò mai, mi aspettava nei giorni seguenti.
Dopo aver lavato i piedi nell'acqua limpida e fresca del ruscello, io e mio fratello venivamo issati nel tino contenente l'uva.
A piedi nudi, pigiavamo la montagna d'uva. Si espandeva un profumo inebriante. Tuttavia, uscivamo da lì molto coscienti! I vapori dell'alcool erano troppo deboli per farci girare la testa o per avere un effetto nocivo sulla nostra salute.
I nostri piedi e le gambe, appiccicosi fino al polpaccio, diventavano di un bel colore rosa...
I miei zii continuavano questo processo per un altro giorno o due e poi il tino veniva coperto. Incominciava la fermentazione.
All'inizio si poteva estrarre un primo succo molto dolce, el mosto, ossia vino nuovo non ancora fermentato. Era molto invitante, e assaggiare questo nettare divino era anche tradizione. Tuttavia, bisognava essere prudenti, perché questa bevanda aveva proprietà certamente un po' inebrianti, ma soprattutto molto lassative! Non era raro vedere, il giorno dopo la degustazione, alcune persone golose che si precipitavano ai bagni, dietro la casa, all'ombra del talpòn.
La pressatura veniva fatta nel torcio, una specie di pressa a vite.
Il liquido ottenuto veniva versato in un contenitore, che veniva accuratamente lavato, e conservato nelle botti di legno del nonno.
Qualche mese dopo, il nonno inseriva un tubo di gomma nella botte e, dopo qualche aspirazione, estraeva il vino dell'anno e lo presentava in una caraffa posta orgogliosamente a tavola.
Questo vino era solo per il consumo quotidiano degli adulti della famiglia. Un vino piccolo, senza dubbio, ma perfettamente biologico!
Vicino alla casa, sul bordo del sentiero che portava ai campi, una piccola vigna piantata a pergola ombrosa, produceva diversi tipi di uva, bianchi, ma anche neri, tutti più profumati e dolci sia gli uni che gli altri. Una delle varietà si chiamava uva fragola, che noi dicevamo framoa. Senza dubbio sapeva di fragole.
Questo vigneto, molto ben curato, produceva uva da tavola. Ne facevamo un consumo corrente. Il nonno permetteva ad ogni famiglia di raccoglierne diversi grappoli. Appesi con spaghi ai chiodi delle travi delle camere, non solo emanavano un piacevole profumo, ma soprattutto, conservati dal freddo ambientale, potevamo goderceli fino a Natale..
ALTRI RICORDI
Ci sono ancora molti ricordi delle feste annuali pagane e religiose celebrate nel nostro paese.
Il pane veniva benedetto durante una processione. Portavamo una pagnotta di pane avvolta in un panno bianco pulito e la deponevamo su un muretto all'uscita della chiesa. Il sacerdote, accompagnato da due chierichetti, si fermava davanti al pane e lo incensava con un fumo fragrante. Quanto mi piaceva l'odore dell'incenso sparso sul pane!
Una processione tra tante altre mi aveva fatto una profonda impressione.
Era il 15 agosto, la festa dell'Assunzione della Vergine Maria "salita al cielo".
Quell'anno avevo circa 5 o 6 anni. Era un giorno d'estate caldo e pesante.
La statua della Vergine velata, tutta addobbata nei suoi migliori abiti bianchi e blu, usciva dalla chiesa. Issata su un carro, andava a fare il giro del centro del paese. Attraversò la piazza principale, passò la scuola e prese la strada principale affiancata da una macelleria, una panetteria, due negozi di alimentari e un’osteria. Poi fece il giro del laghetto, el Lavaio, per continuare lungo la strada dove si trovava la nostra casa. Lì, il carro fermò per qualche istante per onorare un altare fatto di fiori e immagini pie. Questo altare era stato allestito da mio padre verso il suo piccolo giardino, splendidamente decorato con fiori. In giugno sbocciavano bellissimi gigli bianchi e, in questo giorno di festa, enormi rose emanavano un profumo delicato e sublime.
Questo giardino era la passione di papà. Lo curava con molto amore ed era molto orgoglioso del risultato. Tutti si complimentavano con lui. Era un vero piccolo paradiso piantato in un angolo del cortile, vicino al vecchio forno del pane, dietro un leggero recinto e ammirato dalla strada.
Il percorso seguito dal carro della Vergine era costellato da questi "altari" fioriti. Molti di loro mostravano dipinti di scene religiose che erano stati staccati dal muro della camera, sopra la testata del letto, per l'occasione.
Una pausa veniva fatta davanti a ciascuno di loro.
Di tanto in tanto, aprendo la processione davanti al carro, il parroco, circondato dai chierichetti e da un adulto che portava la croce di Cristo, benediceva il percorso fatto dalla processione. Con grandi gesti, faceva oscillare il suo incensiere davanti a sé, poi a destra e poi a sinistra. Si sprigionava un fumo di incenso bruciato, la cui fragranza mi piaceva tanto...
Naturalmente, una processione di fedeli nel loro abito domenicale seguiva questo carro. I canti liturgici lo accompagnavano. Alcuni curiosi si fermavano al suo passaggio.
Ma cos'era per me questo ricordo indimenticabile?
Era questo. Quattro ragazze, tutte vestite di bianco, con una corona di fiori in testa, avevano preso posto sul carro della Vergine. Due erano davanti alla statua, le altre due, più alte, erano in fondo, come "piccoli angeli viventi"! Quell'anno, mi capitò di essere una di loro!
Papà, per l'occasione, mi aveva fatto due ali di carta bianca molto rigida, rinforzate con steli freschi di salice e appese dietro la schiena... I miei riccioli dorati e la mia bella corona mi avevano fatto fare bella figura! Quel giorno, appollaiata su questo carro, avevo un grande orgoglio e un'emozione così forte che, mentre scrivo, le lacrime mi annebbiano ancora la vista..
A metà agosto, dopo la festa della Vergine, veniva la festa delle angurie. È così che chiamavamo il cocomero, l'anguria, in dialetto.
Questo festival si teneva a Cusignana, un piccolo paese a pochi chilometri da Camalò, vicino a Giavera del Montello.
Montagne di angurie venivano ammucchiate in ogni angolo del paese, per essere vendute e gustate da molti festaioli che venivano dalle zone circostanti, sia in bicicletta che con carrette. Si dissetavano con il dolce succo di questo grande frutto dalla buccia verde e dorata e dalla polpa rossa e croccante. Questo frutto contiene semi neri e piatti che è meglio rimuovere, se si vogliono evitare brutte sorprese.
I golosi ne mangiavano fino a saziarsi. Era una vera e propria orgia di cocomeri. E nemmeno noi cedevamo il nostro posto..
Alcuni ritornavano al paese con un po' di mal di stomaco, avendo innaffiato questo pasto di anguria con diversi bicchieri di un vino locale, un po' acido..
Ma non importa, era una festa e una grande opportunità per divertirsi.
A casa, i due giovani fratelli di papà, zio Martino e zio Marcello, avevano investito in una piantagione di meloni e angurie.
Al momento della maturazione, per evitare il furto di questi frutti molto ambiti, facevano la guardia a turno ogni notte in una capanna temporanea costruita nel campo di meloni.
Attenzione ai ladri!
Che delizia questi frutti succosi e maturati al sole!
In questo ricordo, rivedo mia nonna Isa, seduta fuori, sul muretto di casa, che gusta con piacere un melone tenuto tra le ginocchia.
Questo frutto era spesso il suo unico pasto della giornata e uno stile di vita.
Parte del raccolto era per il nostro consumo personale.
Ma in certi giorni, gli zii legavano la cavalla al carro e andavano a vendere queste cucurbitacee nei paesi vicini.
Il ricavato della vendita andava al nonno, che nonostante tutto lasciava loro ancora un po' di paghetta, appena sufficiente per comprare qualche pacchetto di sigarette e bere qualche birra con gli amici nell’osteria del paese.
Una volta all'anno, i paesani si entusiasmavano ancora molto per un grande evento: lo spettacolo pirotecnico di Arcade, il più famoso della zona insieme a quello di Montebelluna.
Una carretta trainata dalla mussa (asina) di nostro nonno materno, nonno Bepi, ci portava lì prima di sera.
Papà ci accompagnava, sedendosi accanto a noi. La mamma, con il suo stomaco debole, non poteva sopportare le scosse di una strada sassosa con buche. Così ci seguiva con la sua bicicletta!
Sistemati come meglio si poteva sul carro, arrivavamo con difficoltà in un grande prato dove altri carri pieni di spettatori stavano aspettando.
Dopo una lunga attesa, al calar della sera, iniziava un magnifico spettacolo. I razzi esplodevano in cielo in pennacchi abbaglianti, rossi, verdi o blu, illuminando fugacemente il prato immerso nel buio. L’intensità dello scoppio riecheggiava in tutto il mio corpo, che sussultava ad ogni esplosione.
Finito lo spettacolo fiabesco, tornavamo in casa sul carretto tirato dalla mussa del nonno Bepi, nella notte chiara e stellata. Ancora stupiti, portavamo il magico luccichio dei razzi nel nostro sonno pesante.
La festa del paese, il 21 settembre, il giorno di "San Matteo", il santo patrono della parrocchia, mi portava ulteriore divertimento.
Ogni anno, pieni di impazienza, aspettavamo questo giorno della sagra, la festa.
La giornata iniziava con la celebrazione della messa solenne, seguita dalla processione intorno al paese.
Mia mamma ha sempre ricordato la festa del 21 settembre 1939, pochi giorni dopo la mia nascita. A quel tempo, le donne in travaglio non potevano uscire fino al quarantesimo giorno dopo la nascita del loro bambino. Così quel giorno, mia madre dovette accontentarsi di guardare la processione dalla finestra della sua camera da letto e non partecipò ai festeggiamenti!
Non partecipò nemmeno al mio battesimo, che fu celebrato qualche giorno dopo..
Questo periodo di quaranta giorni significava un tempo di purificazione. Permetteva anche alla giovane madre di riposare.
La mattina della festa, quindi, passaggio obbligato alla messa solenne dove papà estraeva suoni potenti dalle viscere dell'organo.
Questa musica calda e coinvolgente, proveniente da dietro l'altare, mi avvolgeva e si amplificava in tutta la chiesa gremita di fedeli.
Un coro maschile, composto in parte dai miei zii con le loro voci tenorili, intonava magnifici canti che mi facevano venire i brividi.
Solo mio fratello Tito aveva il privilegio di sedersi in un piccolo banco dietro la tenda dell'altare, accanto all'organo e a papà.
Durante la celebrazione, nessuno, tanto meno le ragazze come me, aveva accesso a questo spazio...
In mezzo agli altri fedeli, seduta accanto a mia madre, dovevo accontentarmi di un posto in un banco della chiesa riservato alle signore..
Gli uomini sedevano a destra e le donne a sinistra della navata centrale della chiesa. Nessuna promiscuità.
La chiesa era piena di gente quel giorno. I ritardatari spesso stavano in fondo, vicino alla porta d'uscita.
Le donne dovevano essere "coperte", cioè dovevano indossare una sciarpa o un velo, spesso di pizzo nero, sui capelli e abiti o camicette a maniche lunghe. Le gonne dovevano coprire le ginocchia... Il parroco vigilava. Se notava qualcosa che non andava bene, dall'alto dell'altare, interrompeva la cerimonia per segnalare ad alta voce a queste persone di lasciare subito la chiesa! Era necessario rispettare questo luogo sacro!
Dopo questa messa solenne, la famiglia e gli amici si riunivano davanti alla chiesa. Si scambiavano complimenti e pettegolezzi tra i gruppi di fedeli. Le donne chiacchieravano allegramente, mentre alcuni degli uomini scappavano all’osteria dall'altra parte della piazza per un bicchiere di vino.
Dopo aver salutato alcuni amici e familiari della mamma, aspettavamo che Tito e papà lasciassero la sacrestia. Non andava all’osteria, ma andava spesso in canonica a chiacchierare con il prete.
A volte il prete ci offriva un melograno, pieno di piccoli semi leggermente acidi, o un caco, un frutto succoso e dolce del colore di un'arancia. In seguito, tornavamo a casa dove, per l'occasione, il portico e la cucina erano stati lavati con acqua abbondante. I pochi soprammobili di rame, probabilmente vecchi bossoli, lucidati con aceto e cenere, brillavano sulla vecchia credenza.
Come segno di un giorno di festa, ci aspettava un succulento stufato, preparato da nonna Isa con l'aiuto della mamma e della cugina Susanna. Stava ancora sobbollendo, al caldo, in un angolo della stufa. Gustavamo carne di vitello o di manzo con salsa di pomodoro, accompagnata da tagliatelle o spaghetti cosparsi del nostro buon formaggio di casa.
Dopo un breve riposo, seguivano i vespri. Ritornavamo in chiesa dove susseguivano canti e inni in latino. Li conoscevamo a memoria, anche se per la maggior parte di noi la loro traduzione era sconosciuta o approssimativa.
In occasione di questa festa, gli abitanti del paese indossavano i loro abiti migliori. Alcuni si erano fatti fare dei vestiti nuovi, a volte cuciti da mio padre o dalla sarta del paese, l’Albina dea Mérica.
Per quanto mi riguarda, un vestitino rosa in taffettà e maniche corte "a palloncino" svolse la sua funzione per diversi anni...
Ogni anno, mentre crescevo, mia madre aggiungeva una piccola striscia di tessuto bianco alla lunghezza del vestito.
Ricordo che una volta mio fratello Tito aveva indossato un bel paio di pantaloncini blu cielo fatti da papà e un gilet blu marino su una camicia bianca. Certo che era molto chic il mio fratellino! Ma a quanto pare non era di suo gusto. Brontolando, si era aggrappato al mio vestito e pretendeva di averlo lui... Va’ a sapere perché! Questo ci aveva fatto ridere, ma lui si era mostrato dispiaciuto. Come possono essere crudeli e beffardi gli adulti!
Finalmente, dopo la messa e i vespri del pomeriggio, arrivava il momento tanto atteso da tutti, la fiera, le giostre e il tradizionale piccolo biscotto, el bussoà. Era rotondo e aveva un buco (el bus) nel suo centro, da cui il suo nome.
Per i più fortunati, il gelato serale, o granita alla menta, chiudeva questa bella giornata.
Gli spettatori si riunivano sulla piazza del paese dove si trovava un alto albero di legno. In cima a questo palo, appese con delle stringhe a un cerchio metallico preso in prestito dalla ruota di una carriola, pendevano salami o pezzi di una forma di formaggio... Il gioco consisteva nell'afferrare una di queste vivande.
Sì, ma ecco: questo palo di cuccagna, rivestito di un sapone nero molto scivoloso, scoraggiava più di un concorrente, che, appena issato di uno o due metri, scivolava irrimediabilmente ai piedi del palo... Dopo diversi tentativi più o meno promettenti, sotto l'incoraggiamento animato degli spettatori, riusciva a volte ad afferrare un salame. Scendeva rapidamente dall'albero e, fiero della sua prodezza e del suo bottino, lo consegnava a un amico che aveva assistito alla sua impresa o a un membro della sua famiglia per mangiarlo a tavola la sera.
Pochi giorni prima di San Matteo, vedevo arrivare delle carovane di legno, dipinte con vari colori, anche se a volte sbiaditi dal tempo. Trascinati da un cavallo, o più spesso da un asino, o anche dal braccio di un uomo, si insediavano per diversi giorni in paese, vicino al laghetto, il Lavaio, così chiamato perché una volta, e per molto tempo, fu usato per lavare i panni.
Da queste carovane scendevano persone con facce abbronzate, capelli unti e acconciature poco curate. Le donne vestivano gonne lunghe e colorate che pendevano a terra, gli uomini con camicie larghe e pantaloni di tela molto spessi, spesso strappati, tenuti su da bretelle. Li chiamavamo i sìngani, gli zingari. Uomini di spettacolo con uno sguardo nero e penetrante che mi intimidivano e affascinavano allo stesso tempo. Innalzavano allora l'installazione più impressionante che poteva esserci, la giostra.
Questa giostra consisteva in un albero centrale molto alto, sul quale erano agganciati dei sedili di metallo sospesi a delle catene lunghe e spesse. Questa giostra era anche chiamata le cadenèe, le catenelle.
Quando la giostra iniziava a girare, la forza centrifuga allontanava le sedie dal palo centrale. Seduti e ben attaccati, spinti da questa forza, i festaioli si dondolavano e giravano nell'aria! Alcuni provavano anche un grande piacere nell'afferrare la sedia del partner di fronte a loro, avvolgendo le loro catene, e poi lasciandole srotolare in un rapido turbinio, accompagnato da risate gioiose e grida preoccupate.
Ero salita su questa giostra con molta paura, ma mi ero seduta molto tranquillamente, senza alcuna fantasia. La giostra girava, e anche la mia testa! Avevo avuto subito la nausea.
A volte succedevano incidenti quando una catena si staccava.. Dovevi stare molto attento e non lanciare il tuo partner troppo in alto. Per un po' di tempo, l'uso di questo tipo di giostra era stato proibito nel paese.
Avevo trovato questa attrazione da fiera, la giostra dee cadenèe, molti anni dopo, su una piazza vicino al mare, una sera di luglio, con le mie figlie durante una vacanza vicino a Rimini, sulla costa adriatica..
Mi piaceva molto la giostra delle barchette. Consisteva nel dondolarsi, stando in piedi in una piccola barca di legno dipinto, appesa a un cavalletto di metallo. Piegando le gambe e spingendo forte per arrivare più in alto possibile, queste altalene non mi facevano venire la nausea e mi divertivano molto.
Al di fuori di queste feste, durante le lunghe serate estive, e fino a sera, l'aia e la strada, veri campi da gioco, diventavano i testimoni dei nostri giochi e delle nostre risate. Nessun pericolo poteva minacciarci. I carri stavano nei fienili e nessuna macchina transitava ancora per il paese.. Gli "anziani" sedevano su sedie o panchine ai bordi della strada, chiacchierando e rinfrescandosi dopo una calda giornata di lavoro.
Niente radio, niente telefono, niente cinema.
A volte, però, nella piazza della chiesa, veniva eretta una grande tenda.
Sotto questa tenda, seduti su gradinate di metallo di fronte a un grande telo bianco, assistevamo, stupiti, alla proiezione di un film muto di Riduini, una specie di Charlot italiano.
Ci faceva ridere molto e il giorno dopo ci raccontavamo le incredibili avventure di questo personaggio un po' goffo, ingenuo, ma molto accattivante.
Poco prima della nostra partenza per la Francia, zio Martino aveva aperto un cinema nel nostro paese. Che evento!
Prima di ogni proiezione, mandava una persona in bicicletta nel paese vicino a prendere la bobina del film per quella sera. Penso addirittura che il film avesse diverse bobine e che questo ciclista facesse, la stessa sera, diversi viaggi di andata e ritorno tra i due paesi..
Sempre su iniziativa di zio Martino e qui con la partecipazione di papà, troupe di comici itineranti si fermavano a volte nel nostro paese dove si esibivano.
I miei nonni avevano ospitato una commediante e suo figlio per una o due sere durante il loro spettacolo.
Affascinata dal palcoscenico, dai costumi, dalle scenografie, sognavo di seguire questi attori nella loro vita bohémien.
Da questo, senza dubbio, deriva la mia marcata attrazione, mai soddisfatta, per il teatro...
LA SPENSIERATEZZA
Molti ricordi si sono impressi nella mia mente durante quegli otto anni della mia infanzia trascorsi nella casa rurale di Camalò, in mezzo a quella grande famiglia.
Immaginate, riuniti intorno ai nonni paterni, agli zii e alle zie ancora nubili, cinque cugini, i loro due genitori Susanna e Battista che erano stati accolti dal nonno. Inoltre, durante gli anni 1944-1945, altre sette persone erano venute a rifugiarsi in casa dei nonni: un fratello e una sorella di papà (zio Carlo, e zia Albina) accompagnati dai rispettivi figli, che i numerosi bombardamenti in Piemonte, e soprattutto nella città di Torino, avevano costretto a rifugiarsi in campagna.
Che grande e bella comunità, dove tutti davano il meglio di sé.
Nello spirito spensierato dell'infanzia, come non avere caldi ricordi di tutte quelle piccole persone che vivevano lì, in quella casa rurale?
Babbo Natale non esisteva in casa nostra. La tradizione era il passaggio della Befana, l'Epifania, la prima domenica dopo Capodanno. La storia sacra racconta che i tre re magi, Melchiorre, Gaspare e Baldassarre, guidati nel deserto da una stella splendente, portarono oro, incenso e mirra al Bambino Gesù nato in dicembre a Betlemme.
Nella nostra tradizione, una donna anziana, la Befana, aveva sostituito i re magi per gratificare i bambini buoni il giorno dell'Epifania.
Era piccola e rugosa, vestita di stracci e scarpe rotte, ed era una specie di strega gentile. Scendeva dalla montagna, con un sacco sulle spalle, cavalcando una vecchia scopa e passando da un camino all'altro... La sua borsa conteneva meraviglie per i bravi bambini e qualche pezzo di carbone per quelli meno buoni!
Quella mattina, i bambini scoprivano nella loro calza, appesa il giorno prima sulla barra del loro letto, i dolci portati dalla Befana...
Ahimè, succedeva spesso che al posto dei dolci attesi, alcuni bambini, tra cui le mie cugine Mirella e Maria, trovassero solo un botolo, una tutolo di mais sgranato, con cui la nonna accendeva il fuoco! Quale tristezza si poteva vedere sui loro volti!
Io e mio fratello eravamo un po' più fortunati, perché, anche se non eravamo sfuggiti alla pannocchia secca, trovavamo, felicemente, in fondo alla calza, una bella arancia grande. E sì, ecco questa arancia di cui abbiamo sentito spesso parlare, l'unico regalo che ricevevamo in quei tempi difficili!
Inoltre, non festeggiavamo i compleanni. Il solo fatto di pizzicarci le orecchie quel giorno significava che avevamo un anno in più e soprattutto che non eravamo stati dimenticati. E questo era già molto! Accettavamo questo gesto come un segno di affetto...
Io e mio fratello eravamo, lo ammetto, tra i più fortunati. Con i pochi spiccioli che avevano messo da parte, senza dubbio risparmiati dopo la vendita delle uova di Pasqua, i nostri genitori ci offrivano un libro da colorare o una piccola scatola di sei matite colorate, o, per mio fratello minore, alcune biglie di argilla...
Non avevamo giocattoli.
Confezionavo le mie bambole con ritagli di stoffa regalatami da mia mamma o da mia nonna. Un tessuto bianco imbottito di stracci, a cui davo la forma di una piccola palla rotonda, prendeva il posto della testa, mentre le braccia e le gambe fatte di piccoli fili, sempre in tessuto, venivano a pendere da un filo più grande che formava il corpo. Al centro della pallina che rappresentava la testa, disegnavo la loro faccia con una matita e le vestivo con vestiti che erano sempre fatti con ritagli di stoffa riciclata. Disegnavo e cucivo io stessa questi vestitini.
Le mie bambole si chiamavano sempre "Rosa".
I capelli di Rosa, se era fortunata, erano biondi, fatti di seta grezza recuperata dalla lettiera dei bachi da seta. In mancanza di ciò, alcuni pezzi di filo nero cuciti sul suo cranio facevano questa funzione quando non erano le sete vegetali che uscivano dalle pannocchie. Ma così, ahimè, Rosa perdeva rapidamente i suoi bei capelli!
Un rocchetto di filo di legno, vuoto, bloccato da un lato con quattro piccoli chiodi con la testa, diveniva una meravigliosa macchina da maglieria. Da esso uscivano metri di intrecci di tutti i colori, fatti con i resti di fili di lana non utilizzati da mamma o dalle mie zie.
Per le nostre cene, nessun problema, i cocci di piatti rotti che recuperavamo dietro la casa, proprio sotto la finestra della cucina, uno più bello dell’altro, venivano a decorare la nostra tavola. E che belle giornate per giocare a "papà e mamma", nella stia del maiale trasformato poco tempo prima in appetitosi salami..
Ancora tutto un cerimoniale il giorno in cui il maiale veniva ucciso.
Diverse persone intorno all'animale erano impegnate a legargli le gambe e a impedirgli di lottare a lungo.
Veniva immobilizzato, issato su una tavola molto larga posta su cavalletti installati dietro la casa, riceveva il colpo mortale di un grosso coltello piantato sotto la gola!
Sì, molto inquietanti queste grida stridenti dell'animale che veniva macellato, e altrettanto impressionante era il sangue che sprizzava dal collo dell'animale e che veniva frettolosamente recuperato sul fondo di un grande secchio! Una volta che il maiale era morto, gli zii ne spargevano il corpo di acqua bollente e raschiavano vigorosamente la pelle, liberandolo così del suo pelo.
Poi sventravano l'animale fino al collo ed estraevano le interiora.
Le donne prelevavano le budella, le svuotavano e le sciacquavano con acqua pulita.
L'odore provocato da questa operazione diveniva rapidamente insopportabile ed io mi allontanavo rapidamente da questo luogo tetro..
Ben puliti, i budelli pieni di carne tritata costituivano la pelle delle salsicce e dei salami.
Che soddisfazione, però, davanti a quelle file di salsicce fresche appese ai pali e messe ad asciugare sopra il focolare della cucina! Salsicce, salami e soppresse - grandi salami regionali, conservati dopo l'essiccazione, nella cantina del nonno e appesi sopra le sue botti di vino, erano una delizia fino alla successiva "tue cochon", uccisione del maiale.
Ah, dimenticavo i buoni piatti di trippa sobbolliti a lungo in un angolo della stufa. A differenza di mio fratello, mi piacevano le frattaglie dello stomaco del maiale, ben cucinate con salsa di pomodoro. Ci immergevo i bocconèt de poenta, quei piccoli gnocchi di polenta calda. Com'era buono!
E che dire delle mie amiche di allora?
Nella casa, molte bambine condividevano i miei giochi. Prima di tutto, le mie due cugine, Mirella e Maria. Quest'ultima aveva la mia età. Anche loro avevano lasciato il paese natale per andare in Francia nel 1947, l'anno prima della nostra partenza. Poi i cugini della porta accanto, che abitavano anche nella casa adiacente, Lina, Rosetta e soprattutto Lorenzo e Giuseppe, detto Bepi. Avevo un debole per lui e lo consideravo il mio "amante".
Questi cugini della porta accanto erano i figli di Nanni, cugino di mio nonno Romano.
Irma, una cognata di Nanni, si era incaricata dell'educazione dei più giovani.
Non c'era mai un sorriso sul volto austero di quella donna, sempre vestita di nero, sempre con lo chignon (crocchia di capelli raccolta sulla nuca).
Suo marito, Sante, era partito per lavorare in Francia e lei aveva rifiutato di seguirlo in diverse occasioni. Da questa unione non erano nati figli.
Così Irma rimase con suo cognato Nanni fino alla fine della sua vita, concedendosi il diritto di governare i bambini con pugno di ferro..
Dovevano obbedirle senza battere ciglio.
Durante i nostri giochi, anche i compagni di classe si univano a noi. Come le due sorelle minori di Bepi Zanatta, Matilda Grosso - sorella di Adolfo, campione di ciclismo del nostro paese e della regione, o i fratelli Miro e Marino che vivevano vicino al Lavaio, il bacino d'acqua di Camalò e che, più tardi, furono anche oggetto di indagini da parte della Questura di Treviso, forse perché sospettati di qualche marachella..
Insieme avevamo inventato e messo in scena opere teatrali. I testi uscivano direttamente dalla nostra immaginazione di allora. Ci esibivamo nel fienile o sotto il suo portico, appollaiati su un palco improvvisato costituito da alcune tavole in equilibrio su cavalletti o panche.
Gli spettatori pagavano una quota simbolica, una banconota da una lira o una banconota "finta" su cui avevamo scritto il suo valore monetario..
Organizzavamo anche dei balli. Infatti, la lettiera delle mucche, una volta sporca, riempiva un recinto cementato costruito dietro la casa rurale. Questo luogo, di una superficie di poche decine di metri quadrati si chiamava la cort. Quando la cort traboccava di letame, gli zii la svuotavano per spargerne il contenuto nei campi prima dell'aratura.
Una grande piattaforma cementata allora si rendeva a noi disponibile. Spazzato con energia, lavato con secchi d'acqua da noi, asciugato e purificato dal sole cocente, il letamaio diventava la più bella pista da ballo.
Le nostre belle gonne a fiori, raccolte in vita, turbinavano in un baccano di canti e risate. Mi vedo ancora volteggiare, così veloce che molte volte mi ritrovavo ubriaca, così stordita da cadere sulle natiche!
I nostri giochi a volte andavano oltre la casa. Ci incontravamo nella piazza della chiesa del paese, soprattutto sotto un grande albero chiamato el pisoèr, che forniva un'ombra molto confortevole. Questo enorme albero produceva piccoli frutti a nocciolo, neri e molto dolci.
Non avevo mai visto quest'albero fuori dal mio paese fino a poco tempo fa, quando penso di averlo scoperto dopo un viaggio nel sud della Francia. Era un bagolaro! Che bel nome, così pieno di poesia, di sole, e la cui musicalità corrisponde completamente al dolce ricordo che mi è rimasto.
Qualche piccola discussione nasceva a volte tra di noi, quando due compagni si precipitavano allo stesso tempo sullo stesso frutto caduto dall'albero. Ma niente di veramente brutto e tornavamo rapidamente ai nostri giochi da bambini.
Approfittavamo del caldo estivo per spruzzare acqua intorno alla fontana.
All'angolo della strada che portava al paese di Santandrà, di fronte a questa fontana, viveva una famiglia che tutti chiamavano "I B....".
Vivevano vendendo alcuni generi alimentari e coltivando un piccolo campo di arachidi.
Un giorno mi ero avventurata a seguire uno dei bambini. Mi aveva fatto conoscere queste arachidi che, una volta essiccate, si trasformavano in deliziose noccioline.
Ma l'igiene di questa famiglia lasciava così tanto a desiderare che evitavamo di starle troppo vicino. Il più delle volte erano scalzi, vestiti come mendicanti, mocciosi d'estate e d'inverno e sorridenti da un orecchio all'altro, ma erano comunque molto sani..
I giochi di campana e di biglie non avevano segreti per noi.
L'aia, né asfaltata né inghiaiata, era fangosa quando pioveva, ma quando era asciutta, era il posto perfetto per giocare a biglie. Con il tacco delle nostre scarpe o delle nostre galosce, con un movimento rotatorio della caviglia, ci scavavamo una buca nella terra secca. Poi, stazionando a qualche metro di distanza, lanciavamo a terra a turno le biglie in palio. Con il dito indice, che non doveva raschiare il terreno, facevamo rotolare le biglie finché non cadevano una ad una sul fondo della buca.
Si iniziava con le palline più vicine alla buca. Quando un giocatore mancava la buca, l'altro prendeva il suo posto.
Il primo giocatore che metteva l'ultima biglia nella buca vinceva la partita e guadagnava tutte le biglie cadute. Queste biglie di terracotta erano fragili e spesso, dopo aver colpito un'altra biglia o una pietra, si rompevano durante il gioco. Avevamo scoperto le biglie di vetro colorate e, molto più tardi, le grandi sfere di metallo pesante e lucido, giocando sulla spianata delle banchine in Francia.
A volte sgattaiolavamo anche in un campo fiancheggiato da alte canne di sorgo. I semi che coprivano l'estremità delle canne erano usati principalmente come alimento per le mucche. Queste canne erano anche usate per fare scope, che erano molto popolari nella casa rurale.
Per evitare di essere colti in flagrante, rompevamo alcuni gambi di questo grano. A circa venti centimetri dal bordo della rottura, tagliavamo due lame, una per lato, della canna. Queste lame, una volta che la canna era piegata alla loro base, formavano le due orecchie della testa di un cavallo. L'estremità del bastone diventava una bocca. Un vimine, introdotto in questa bocca, fatto risalire attraverso un foro praticato nel collo, e la cui estremità veniva infilata in un ultimo foro, davanti alla sella, diventava la briglia del cavallo. Diventavamo poi intrepidi cavalieri in sella a magnifiche cavalcature.. Una sottile liana correva sopra le siepi. Piccoli fiori bianchi e soffici coprivano questa specie di edera molto delicata.
Con essa ci coprivamo le spalle come stole, e diventavamo delle vere principesse uscite da una favola.
E che dire delle collane e delle corone di fiori di margherita, infilati pazientemente, uno dopo l'altro, su un filo che la mamma aveva srotolato con parsimonia da un rocchetto rubato dal laboratorio di papà? Poste sulla testa, queste corone diventavano gioielli effimeri e profumati.
Eravamo pieni di immaginazione! Eravamo gli attori del meraviglioso mondo della nostra infanzia spensierata.
All'età di sei o sette anni, avevamo naturalmente degli amoreggiamenti. Alcuni dei nostri compagni di classe e vicini ci facevano già battere il cuore. Ricordo persino un giorno in cui mi rifiutai di partecipare ad un gioco, con il solo pretesto che il mio amore del momento era assente!
Quando, dopo il raccolto, i pagliai si alzavano come capanne dietro la casa rurale, noi scavavamo gallerie ai loro lati e ci accalcavamo dentro, ben nascosti alla vista degli adulti, rannicchiati insieme.. Lì, nascosti agli occhi dei grandi, ci scambiavamo i nostri primi sentimenti d'amore e scoprivamo la nostra anatomia.. Gli starnuti causati dalla polvere di paglia non ci scoraggiavano, ma, da parte mia, la claustrofobia mi impediva di rimanere lì a lungo!
Questa casa della mia infanzia, una ricchezza sorprendente per i nostri giochi...
Una tradizione avveniva, credo, alla fine dell'inverno.
Una specie di spaventapasseri, che rappresentava una vecchia strega, veniva posto sopra un enorme mucchio di paglia. Gli si dava fuoco. Si formava un cerchio intorno al mucchio e mano nella mano si assisteva al rogo sacrificale con stupore. Era uno spettacolo molto fumoso perché la paglia bagnata aveva trascorso l'inverno fuori, non lontano dalla fossa dei liquami.
Eravamo molto felici di vedere la strega, così bruciata, sparire, e di immaginare che la primavera sarebbe arrivata presto.
All'inizio della primavera, il parroco di Camalò, accompagnato da due chierichetti, veniva a benedire l'interno delle case del paese. Per l'occasione, la grande pulizia doveva essere fatta..
Da questa tradizione è nata l'espressione là, onde che passa el prete, "là, dove passa il prete". Ossia, quando non c’è abbastanza tempo o voglia, ci permettiamo di non pulire ovunque, ma solo dove è visibile! Sarebbe come "la polvere sotto il tappeto"!
Eravamo spensierati.
Tuttavia, c'era stata la guerra, l'occupazione, la privazione, la resistenza dove membri della mia famiglia, vicini, paesani avevano rischiato la vita..
Ma durante questo periodo di miseria, ritengo di essere stata in qualche modo risparmiata. O forse non mi rendevo conto della gravità degli avvenimenti.
Nonostante ciò, ero stata segnata dai rigidi inverni di questa pianura, spazzati dal vento gelido che scendeva dalle cime alpine.
La casa non aveva riscaldamento, tranne la stufa che usavamo per i nostri pasti, e una piccola stufa a legna nel laboratorio da cucito di papà.
Il ghiaccio faceva dei bei disegni sulle finestre della nostra camera da letto e le correnti d'aria si infiltravano sotto la porta e attraverso le finestre mal sigillate.
Per fortuna, papà aveva questa piccola stufa che alimentava con qualche ramo di legna secca e che accendeva con le pannocchie secche, i bòtoi, del mais.
Come sarto, stirava i suoi lavori con un pesante ferro da stiro in ghisa pieno di braci incandescenti, che riattivava di tanto in tanto sulla porta del suo laboratorio con energici movimenti oscillatori. Poi lo rimetteva sul fuoco per mantenere la temperatura prima di usarlo nuovamente.
Non c'era acqua corrente sopra il lavandino.
Per il bere, per i pasti, il lavaggio delle verdure, andavamo, secchio alla mano, alla fontana comunale situata alla fine della nostra strada, all'incrocio di due strade principali del paese. Una portava da est a ovest, da Povegliano a Postioma, l'altra da nord a sud, da Montebelluna a Santandrà e Treviso. Era qui che le casalinghe si ritrovavano a lavare le loro insalate, i denti di leone e i radici. Pulire le verdure alla fontana era più facile che andare avanti e indietro con i secchi d'acqua. Quali pettegolezzi, naturalmente, intorno a questa fontana! Quali storie e segreti di famiglia non ha sentito?
Non c'era nemmeno un bagno all'interno della casa. Una capanna di assi costruita sotto un grande albero, dietro la concimaia, serviva da WC.
Questo albero era chiamato talpa, diverso dalla catalpa.
Nella bella stagione, si poteva essere traditi dall'assenza di ritagli di giornale, solitamente appesi al chiodo dietro la porta del bagno. Le grandi foglie di talpa, soffici ma ruvide, divenivano una salvezza. Alla faccia della comodità!
Per i bisogni notturni, usavamo il "vaso da notte" che doveva essere svuotato e pulito ogni mattina.
Un vero balletto mattutino, questo andirivieni degli occupanti della casa, che andavano a svuotare il loro vaso da notte nella capanna del WC!
Per la toilette, i lavori domestici, l'irrigazione dei giardini, si utilizzava l'acqua del ruscello che scorreva dall'altra parte della strada, di fronte al cortile. Quest'acqua de la brantèa, fresca e limpida, scendeva dalla montagna attraverso il Canale della Vittoria, si snodava dall'entrata nord del paese e passava davanti a tutte le case della nostra strada.
Questo ruscello era essenziale per la vita della casa rurale. Le mucche vi bevevano quando tornavano dai campi prima di tornare alla stalla. Le verdure dell'orto, che confinava con la strada, beneficiavano della sua freschezza. In estate, specialmente, questo ruscello raccoglieva i bambini sulla sua riva. Spesso ci sguazzavano dentro e si schizzavano con grandi grida di gioia.
Nelle estati molto calde del 1945-46, il sole bruciava così tanto che rendeva impossibile lavorare nei campi fino al tardo pomeriggio. Quindi, "tutti alla siesta"!
Prima della siesta, ci risciacquavamo i piedi nell'acqua di quel ruscello. Salendo sulle spalle di papà, uno dopo l'altro, io e mio fratello attraversavamo l'aia e tornavamo in camera da letto senza mettere i piedi per terra, a meno che non indossassimo i nostri piccoli zoccoli di legno dipinto.
I grandi bagni erano rari, soprattutto in inverno. Dovevamo accontentarci di un po' d'acqua versata in una bacinella nella camera.
Tuttavia, di tanto in tanto, ci veniva concessa una “grande” toilette.
Il grande mastello di legno, quello che si usava anche per il bucato, pieno di acqua calda, ci aspettava nel laboratorio di papà. Mamma vi immergeva mio fratello e me, entrambi allo stesso tempo, il ché evitava di sprecare acqua. Ci strofinava energicamente con il sapone. Come bambini eccitati, schizzavamo con i nostri movimenti incontrollati e gioiosi la mamma, e parte della stanza. L'acqua versata sul pavimento non era comunque persa. Papà ne approfittava per spazzare e lavare la sua stanza da cucito.
Una volta puliti, la mamma ci avvolgeva in un grande lenzuolo bianco che era stato steso sul tavolo da lavoro di papà. E lì, distesi su questo lenzuolo, dopo un'asciugatura meticolosa, ci aspettava un vero momento di felicità.. Come pesci pronti per essere fritti, ci cospargeva di una polvere bianca molto profumata, di cui faceva sempre un grande uso dopo la sua toilette, il talco!
E che talco! Felce Azzurra o Borotalco comprato da zia Tilde, la sorella maggiore di papà, che aveva un'attività in paese. Era un bazar, una farmacia, un negozio di alimentari e prodotti di prima necessità. Una vera caverna di Ali Baba.
Si poteva trovare di tutto, filo, aghi, nastri, fiammiferi, candele, lucido per scarpe, sapone, sandali, zoccoli ecc. Anche un reparto di frutta e verdura ben fornito manteneva la sua importanza.
Il negozio era aperto quasi tutti i giorni e, nei giorni di festa, una bella bancarella nella via principale del centro del paese attirava i clienti, intenditori di buoni prodotti, che vi accorrevano al mattino.
Di tanto in tanto, circa una o due volte all'anno, un venditore ambulante veniva ad offrire agli abitanti del paese ogni sorta di tessuti. Andava in giro con un piccolo carretto coperto da un telo protettivo. Si metteva al centro dell'aia della casa rurale e, con un gesto teatrale, scopriva tutta la sua merce davanti agli occhi illuminati delle giovani donne che accorrevano e facevano un cerchio intorno a questo tesoro.
Correvano verso i pezzi di tessuto, verso i rocchetti di filo e sognavano i nuovi vestiti che avrebbero potuto cucire per sé o per i loro figli.
Papà a volte approfittava di questa visita per comprare qualche pezzo di tessuto con il quale poteva fare dei bei vestiti da offrire, all'occasione, ai paesani "benestanti", o da riservare per i nostri bisogni.
Passava anche il riparatore di sedie impagliate, el impàja carèghe.
Con fasci di lunghi steli di paglia sulle spalle, andava per le strade del paese gridando "carèghe rote?", sedie rotte?
Quando la nonna gli affidava una sedia danneggiata, lui si sistemava con tutta la sua attrezzatura sotto il portico della stalla e dopo qualche ora di lavoro, un abile intreccio di paglia nuova di zecca ricopriva il sedile.
Oh, quasi dimenticavo l'affilatore di coltelli, che chiamavamo el moléta. Spingeva un piccolo carrello con sopra una mola di pietra rotonda. Gridava dalla strada e nell'aia chiedendo "coltelli, forbici, da affilare? ".
Le casalinghe uscivano dalle loro cucine e presentavano i loro utensili all'affilatore. Sistemava, allora, la sua attrezzatura nel cortile. Con un piede azionava un pedale che muoveva la mola di pietra su cui cadeva un getto d'acqua. Il contatto della lama sulla mola proiettava acqua mista a scintille! I rumori striduli erano così forti che dovevamo tapparci le orecchie.
Avevo ricevuto, naturalmente, un'educazione religiosa, anche se, nel paese, non c'era che una sola scuola.
Il corso di religione era obbligatorio e valutato allo stesso modo delle altre materie insegnate.
Mio padre mi aveva raccontato di essere stato rimproverato dal parroco perché ero stata battezzata solo una settimana dopo la mia nascita e non entro i primi due giorni, come si usava.
Ricordo molto bene la mia prima Comunione a Camalò, all'età di sei anni, e ancora di più la mia Cresima l'anno dopo.
Seduta sul portapacchi della bicicletta della mia madrina, ero stata portata in una chiesa di Treviso, sede del vescovado. Accompagnato dal suo padrino, Tito, anche mio fratello minore era stato cresimato lì. Eravamo vestiti come vere persone sposate! Ero vestita con un lungo abito bianco di organza, con un lungo velo tenuto in testa da un diadema. Mio fratello indossava un piccolo abito nero fatto da mio padre.
La mia madrina, per questa grande occasione, mi aveva regalato una bellissima bambola. La mia prima bambola "vera" con una testa di porcellana, un corpo pieno di suoni e vestita con un vestitino blu con i volant. La rivedo ancora..
Come l'avevo abbracciata forte, che regalo inaspettato!
Ahimè, non avrei giocato a fare la mamma per molto tempo con questa bella pupa. Una sera, da mamma indegna, l'avevo dimenticata fuori di casa e la mattina dopo l'avevo trovata vicino alla stalla: decapitata, sventrata, fatta a pezzi!
Il cane di casa si era occupato energicamente di "Rosa".
Quella era stata la mia unica e sola bambola "vera".
E la mia istruzione? Abbastanza severa, a dire il vero, e basata sulla moralità. Mio padre, molto vicino all'ambiente ecclesiastico, era stato esortato in giovane età ad insegnare il catechismo ai bambini della parrocchia prima che questa disciplina fosse obbligatoria in classe.
Il parroco lo aveva pure esortato a prendere assiduamente lezioni di solfeggio e di pianoforte.
Il suo maestro era un cieco di grande talento, e papà aveva ricevuto un buon insegnamento, che gli aveva permesso di essere scelto per "tenere" l'organo nella chiesa di Camalò.
Papà si era imposto una disciplina severa, e l'aveva imposta anche a noi.
Per mantenere le sue dita flessibili come pianista, cosa essenziale per il suo lavoro come organista della chiesa del paese, prese corsi di taglio e cucito oltre alle sue lezioni di solfeggio e pianoforte. Aveva così ottenuto i diplomi necessari per la professione di sarto artigiano per abiti da uomo. Nel paese era chiamato el sartor, il sarto. La sua posizione di organista parrocchiale e il suo lavoro di sarto gli avevano permesso di non lavorare nei campi, a differenza dei suoi fratelli e sorelle che vivevano in casa.
La mia educazione era stata piuttosto severa e "moralizzatrice". Dovevo "camminare diritta", come diceva mio padre, cioè seguire i precetti della buona condotta e della moralità.
Alla minima trasgressione, alla minima impudenza, papà interveniva.
Ecco un aneddoto memorabile.
Avrò avuto tra i sette e gli otto anni. Quel giorno, mi stavo preparando a ricevere le mie amiche del momento, nella stia del maiale, ucciso da poco. Il pavimento era stato lavato con cura. Per decorare questa bella sala di ricevimento, avevo fissato vecchie cartoline sulle pareti di legno..
Un cugino di Nervesa della Battaglia, poco più grande di me, che era in visita con sua madre, la zia Emilia, mi aveva raggiunto lì. Dopo un po', sul retro di quel porcile, mentre davamo le spalle alla porta d'ingresso, era venuto a mostrarmi il suo pisellino.. Incuriosita e sorpresa, avevo guardato.. Ma eravamo stati sorpresi da Susanna, la mamma di Maria, che passava per caso in quel momento. Aveva immediatamente riferito la scena a mio padre.
Lui era venuto a prendermi, mi aveva fatto scendere dal porcile e, con un bastone in mano, mi aveva inseguito finché non eravamo arrivati entrambi senza fiato alla porta della sua sartoria. Lì aveva preteso che mi inginocchiassi davanti a lui e chiedessi perdono per questa azione impura.
Questo triste ricordo rimarrà sempre impresso nella mia mente..
Un'altra avventura, riguardante il proibito, è ancora presente nella mia memoria. Un giorno, con mia cugina Maria, stavamo giocando nel prato vicino alla casa. Avevamo notato che su alcune viti che costeggiavano il prato, alcuni acini cominciavano a diventare rossi. Per queste due ragazze golose, la tentazione era più grande della ragione. Avevamo cominciato a raccogliere l'uva.. Un grano qui, un grano là..
All'improvviso, venendo da non so dove, dietro di noi, nonno Romano ci aveva còlto di sorpresa e con la sua grande voce piena di rabbia, ci aveva ordinato di allontanarci di fretta! Aveva raccolto un bastone che giaceva lì vicino e aveva fatto finta di inseguirci. Avevamo preso la direzione di casa e, più veloci di lui, eravamo riuscite a sfuggirgli. Eravamo spaventate a morte, così ci eravamo rifugiate nella camera dei miei genitori, dove avevamo trascorso buona parte del pomeriggio con la paura che egli scoprisse il posto del nostro nascondiglio.
L'uva dei vigneti del nonno era sacra! Guai ai mascalzoni che si azzardavano a fare così prima della vendemmia. Quei grani erano altrettante gocce di vino in meno nelle sue botti.
Più paura che danno. Un piccolo sermone prima di cena e la questione era stata chiusa. Ciononostante, mi vedo ancora correre a perdifiato per allontanarmi dal bastone del nonno. Ma era così, bisognava rispettare la natura, le coltivazioni, le vigne, la gente.
Ci era anche proibito giocare a nascondino nei solchi delle alte piante di mais, che tuttavia ci offrivano misteriosi labirinti per i nostri giochi.
Oltre alle feste parrocchiali e alle tradizioni popolari, ricordo due matrimoni.
Il primo, quello di zia Carolina, una delle sorelle minori di papà. Non ho alcun ricordo della cerimonia religiosa, tranne i pochi confetti bianchi lanciati sulla piazza della chiesa quando gli sposi erano usciti. I bambini aspettavano con impazienza quel momento in cui, in una nuvola di polvere, si sarebbero precipitati su quei rari dolci.
Nessun ricordo del pranzo nuziale. Di contro, le ore che seguirono sono ancora incise nella mia testolina. Ah, quello sì!
I genitori, gli amici degli sposi, avevano assediato la casa dei nonni, il luogo del matrimonio. La festa era in pieno svolgimento.
Durante tutto il pomeriggio, il suono della fisarmonica si sentiva in tutto il vicinato e soprattutto nell'aia. Abbracciando mia cugina Maria, continuavo a girare e a stordirmi la testa al ritmo dei valzer. Nella polvere del cortile, le mie scarpe di vernice nera erano diventate irriconoscibili! Avevo circa sei anni e questo era stato il mio primo ballo con questa musica. Che grande giornata!
La sera, la festa di matrimonio si era prolungata con la festa di San Giovanni, quindi era il 24 giugno 1945.
La sera del giorno di San Giovanni, era consuetudine accendere dei fuochi per terra nelle strade del paese e che gli abitanti, mano nella mano, li attraversassero in una corsa frenetica.. Si erano formate bande allegre di giovani e avevano guidato gli sposi in una lunga farandola. Immaginate la sposa che saltava sopra i fuochi, stringendo con difficoltà il lembo del suo lungo vestito per evitare che bruciasse!
Che corsa gioiosa in quella limpida e bella notte d'estate!
Il secondo matrimonio fu quello di zio Martino, il fratello di papà, quello che era attivo nella Resistenza. C'erano molti ospiti a questa festa. Infatti, due sorelle avevano celebrato il loro matrimonio lo stesso giorno. In quell'inverno del 1947-48 il freddo imperversava. Eravamo vestiti con i nostri cappotti, cuciti da papà, e il ricordo principale che rimane è piuttosto malinconico. Papà era via. Lavorava già in Francia e ci aveva lasciato nella casa paterna. Sola, la mamma ci aveva accompagnato. In tutta la gioia che ci circondava, una grande tristezza si poteva leggere sul suo giovane e bel viso..
Durante questa prima infanzia, mi ero sentita ben amata dai miei zii Martino e Marcello e da mia zia Carolina. Più giovani di papà e ancora celibi, mostravano una certa ammirazione nei suoi riguardi. Probabilmente ero stata la loro prima nipote a nascere in quella casa rurale. Quindi il loro affetto era particolarmente forte per me. Il mio fratellino non era da meno e naturalmente aveva ricevuto la sua parte di attenzione.
Gli zii mi facevano saltare sulle loro ginocchia. Ricordo una foto, purtroppo andata perduta, dove, da bambina, mi tenevano in piedi, in equilibrio, nel palmo della loro mano alzata al cielo. Più tardi, da bambina, tornando dai campi, mi appollaiavano sopra il carro carico di fieno o di stocchi di mais.
Seguivo zia Carolina quando cardava la lana delle nostre poche pecore nella stalla. Spesso mi portava con sé. L'ascoltavo e osservavo i suoi gesti precisi e ben collaudati.
La sua voce cristallina accompagnava i pettini che andavano e venivano.
Oltre ai vestiti confezionati dai miei genitori, alcuni acquisti di prima necessità o gingilli venivano acquistati al bazar di zia Tilde, la sorella maggiore di papà, come i nastri che portavo nei capelli. Più largo era il nastro di taffetà e più grande era il nodo in cima alla mia testa, più bello mi faceva apparire alle mie compagne di classe e suggeriva uno status sociale più elevato rispetto alle ragazze i cui nodi erano più modesti.. Gli abitanti del paese erano così poveri in quei giorni di guerra che anche la larghezza di un semplice nastro sui capelli di una ragazza poteva fare la differenza.
Invece, per quanto riguarda la cartella della scuola o le scarpe, papà si recava in bicicletta fino a Treviso, una città a circa dodici chilometri da Camalò. Tornava con una piccola borsa di "cartone bollito" che tenevo orgogliosamente in mano il primo giorno di scuola e dove conservavo con cura il mio scarso materiale scolastico. Molti dei miei compagni di classe, tranne il figlio dei borghesi del villaggio "i Signori", proprietari di un negozio di alimentari, portavano sulle spalle una specie di borsa di tela fatta dalla loro mamma. Dal suo viaggio in città, papà a volte ci portava un piccolo libro da colorare.
Per l’acquisto delle nostre scarpe era una bella cerimonia! Io e mio fratello ci sedevamo su una panca in cucina. Papà ci faceva mettere i piedi su un bastoncino di legno, il più dritto possibile, allineando un'estremità con il tallone e rompendolo circa mezzo centimetro oltre il pollice. È così che misurava la lunghezza dei nostri piedi. Quando arrivavamo al negozio di scarpe o al mercato di Treviso, papà inseriva il suo pezzetto di legno nel modello scelto. Se questo test toccava sia la parte posteriore che quella anteriore della scarpa, la misura era corretta..
Eravamo fortunati rispetto alla maggior parte dei nostri compagni perché, la domenica, ci mettevamo queste belle scarpe, spesso verniciate per me, mentre gli altri portavano ancora i loro zoccoli o le loro galosce dei giorni feriali.
In quegli anni era meglio non essere malati. Nessun medico, nessuna ostetrica, nessuna farmacia nel mio paese. Le donne partorivano a casa. L'ostetrica che proveniva da Povegliano, la levatrice, veniva chiamata al capezzale delle future mamme, nelle ultime ore quando il "travaglio" del parto era già a buon punto. Le donne, che erano presenti alla casa in quel momento, mettevano a bollire l'acqua in una grande pentola e si davano da fare in cucina..
La neomamma era ben curata e, per l'occasione, veniva trattata con un buon brodo di pollo o addirittura di piccione, che doveva darle la forza di allattare il neonato. E, come i bambini, aveva il privilegio di inghiottire un buon tuorlo d'uovo dolce, vigorosamente sbattuto in un bicchiere. L'uovo fresco di giornata avrebbe aiutato la donna in travaglio ad avere di nuovo un bell'aspetto.
Qualche tempo prima della nascita della mia sorellina, io e mio fratello avevamo spostato il nostro letto dalla stanza dei nostri genitori al soèr, vicino agli altri nostri cugini. Il nostro letto era stato spostato in un posto proprio di fronte alle scale, l'unico posto disponibile. Ricordo alcune delle battute con gli adulti prima che ci addormentassimo a tarda notte.
Questo dormitorio improvvisato era spesso visitato da gatti che si aggiravano nei dintorni. Papà controllava la loro intrusione e si assicurava che nessuno di questi felini venisse a posarsi sul nostro letto e soprattutto non sul nostro collo.
Si diceva che potevano soffocarci. Se per disgrazia uno di loro aveva l'audacia di tenerci compagnia, mentre papà veniva a controllarci, in piena notte, per assicurarsi che tutto andasse bene, afferrava questo animale per la pelle del collo e lo lanciava senza riguardo da una delle finestre di questo dormitorio del primo piano.. E... hop!, fuori il gatto, quello non sarebbe più ritornato!
La mattina, quando mi svegliavo, a volte non riuscivo ad aprire gli occhi. Le mie palpebre rimanevano bloccate! Allora mi prendeva il panico, la paura del buio, la paura di rimanere cieca. Quando chiamavo per l'angoscia, mia madre si precipitava al mio letto. Con un gesto delicato e preciso, usando un piccolo batuffolo di cotone precedentemente imbevuto di acqua bollita e riscaldata, mi umettava le palpebre finché le ciglia non si staccavano e, "miracolosamente", potevo vedere di nuovo.
Allo stesso modo, se un dolore acuto mi arrivava alle orecchie dopo un periodo di freddo, mia madre, quando allattava la mia sorellina, mi prendeva vicino a sé e, stringendo il capezzolo, spruzzava un po' di latte caldo nel canale auricolare. Quando non allattava, l'altro rimedio era tenere un pezzetto di cotone idrofilo, precedentemente imbevuto d'olio, dietro il lobo dell'orecchio, scaldato in un cucchiaio sulla fiamma di un accendino..
È successo che avevamo avuto prurito all'ano, segno della presenza di vermi nell'intestino. La mamma allora ci aveva "regalato" una piccola caramella color cioccolato che in realtà era un vermifugo!...
Pochi giorni di questo trattamento e ci eravamo liberati di questi fastidiosi parassiti.
Nessun medico, nessun altro rimedio, la malattia doveva andare via così, come era venuta..
Un giorno mi ero svegliata con il corpo coperto di piccole macchie rosse.
Nessun medico e nemmeno il panico. I genitori decisero che avevo la varicella o il morbillo e che si doveva permettere a mio fratello minore di dormire nello stesso letto, in modo che anche lui potesse contrarlo senza indugio. Eravamo stati relegati nella stanza per tutto il tempo necessario perché quelle piccole eruzioni sparissero!
Una mattina non avevo più visto mia madre. La sua assenza era prolungata e io ero preoccupata.
Una settimana dopo la sua "scomparsa", papà mi aveva messo su un calesse trainato da una cavalla. Non ricordo chi teneva le redini della cavalla: era mio nonno o un vicino? In ogni caso, dopo aver percorso diversi chilometri, seduti accanto a papà in questa specie di carrozza, eravamo arrivati all'ospedale della piccola città di Montebelluna, a nord-ovest di Camalò. Io e papà eravamo entrati in una stanza enorme con un forte odore di medicine. I pazienti, solo donne, erano stesi su letti di metallo bianco con sbarre, allineati contro le pareti. Per un breve momento avevo cercato il volto di mia mamma. Tutta felice, l'avevo riconosciuto emergere da uno di loro. Aveva da poco subito un'operazione di appendicite e aveva un leggero sorriso di dolore. Tornò a casa diversi giorni dopo quella visita, portando ancora quel segno di sofferenza. Questo fu il mio primo contatto con l'ospedale e il suo inquietante odore di disinfettante.
Spesso avevamo trasformato la stia del maiale, liberata dal suo occupante e pulita energicamente, in un parco giochi. Una mattina, dal fondo della capanna, mi ero lanciata, con l’intento di sospendermi con le braccia alla barra sopra la porta e saltare a terra, fuori.. Avevo mancato la presa e mi ero trovata, dolorosamente sorpresa, seduta su un piccolo chiodo che sfortunatamente spuntava dal pavimento! Piangendo e con alcune gocce di sangue che mi scorrevano sulla gamba, ero corsa rapidamente al laboratorio di papà. Lui aveva pulito la ferita come meglio poteva, e subito, dopo aver avvertito la mamma che aiutava la nonna in cucina, era salito su una bicicletta, mi aveva seduta sulla barra orizzontale del telaio davanti a lui, ed eravamo partiti, in tutta fretta, diretti al medico di Povegliano. Avevamo dovuto fare in fretta perché il chiodo era sporco e arrugginito. Avrebbe potuto causare un'infezione, o addirittura il tetano, una malattia considerata pericolosa all'epoca e ancora oggi. Il medico mi aveva fatto un'iniezione ed eravamo tornati a casa.
Credo che sia stato il mio primo vaccino. Me lo ricordo ancora oggi!